di Callisto Cosulich
(Pubblicato sul n. 6 di Amadeus, maggio 1990)
I palpiti cinematografici di mademoiselle Gauthier
Alphonsine Plessis, spinta dal padre alla prostituzione,abbandonata e poi resa famosa
da Dumas figlio, ha ispirato, tra realtà e mito, un personaggio amato dal pubblico e dai registi.
Nella letteratura francese del Secondo Impero, tra romanzo e teatro, fra i Maupassant e gli Zola da un lato, gli Scribe, i Sardou e i Dumas dall’altro, ci fu un abisso. Dice bene Gaetan Picon, quando afferma che i romanzieri si adoperavano a scoprire, mentre i drammaturghi coprivano, che i romanzi accusavano, mentre i teatranti, nella fregola di piacere ad ogni costo al loro pubblico, giustificavano. La dame au camélias di Dumas figlio, anche se nacque come romanzo, non sfuggì alle regole che il teatro dell’epoca si era imposte: una storia esemplare, in cui i veri responsabili vanno praticamente assolti e la prostituta paga il fio dei suoi peccati colla morte, salvo poi essere risarcita dal mito.

Alexandrea Dumas figlio
Dumas chiama la prostituta Marguerite Gauthier, le offre gli atouts per divenire il personaggio d’obbligo di tutte le più o meno grandi attrici: da Sarah Bernardt a Greta Garbo, da Hesperia a Francesca Bertini da Alla Nazimova a Norma Talmadge, da Yvonne Printemps a Micheline Presle. Anche il Terzo Mondo offrirà il suo contributo attraverso la messicana Maria Felix. In realtà Marguerite Gauthier si chiamava Alphonsine Plessis; era una cagnetta sperduta senza collare che aveva trovato la via per diventare un mammifero di lusso, ma colla sfortuna di vivere in un’epoca in cui la tubercolosi era ancora un male incurabile: un male che le mangiò i polmoni sino a mandarla all’altro mondo. Era morta a 23 anni, mentre la maggioranza delle interpreti che la personificarono, avevano superato da tempo la quarantina. Aveva scoperto nel danaro un bene meno volubile dell’amore e il padre lenone le era stato maestro nello spingerla a scegliere definitivamente questa soluzione. Proprio Dumas figlio avrebbe potuto diventare l ‘alternativa, se a un certo punto non l’avesse abbandonata come è costume fare colle «donne facili» e, quindi, non degne di un affetto duraturo. Salvo recuperarla dopo morta per scriverci sopra il romanzo (tradotto poi in dramma) e diventare famoso. Alla resa dei conti è difficile dire chi fu più lenone: se lui o il padre di Alphonsine.

Marie-Duplessis: la signora delle Camelie
La realtà di un mito
La storia vera della «Signora delle camelie» fu scritta da Jean Aurenche e Vladimir Pozner solo in tempi recenti e sotto forma di soggetto cinematografico, che finì sul tavolo di Daniel Toscan du Plantier, quando costui dirigeva la multinazionale Gaumont. Il produttore trovò subito l’interprete ideale del ruolo di Alphonsine nell’allora sua moglie Isabelle Huppert. Stentò invece a reperire chi dovesse dirigerla, ripiegando alla fine su Mauro Bolognini che ridusse la cruda vicenda in una sontuosa illustrazione del demi-monde, grazie soprattutto all’apporto dello scenografo Mario Garbuglia e del costumista Piero Tosi. Ne uscì un film tutto cornice e poco quadro, nonostante gli sforzi della Huppert e di Gian Maria Volonté (nel ruolo del padre) per dare ai loro personaggi una dimensione realistica. Insomma una occasione mancata, tanto vero che si ricorda più volentieri Traviata ’53, cioè il tentativo, operato nell’anno del titolo da Vittorio Cottafavi, di aggiornare la stessa vicenda, ambientandola nell’Italia industriale alla vigilia del boom.
Se si eccettuano questi due esperimenti, le altre infinite volte che il cinema ha affrontato il personaggio di Alphonsine, è ricorso al mito: Alphonsine è divenuta Marguerite (secondo le indicazioni di Dumas), oppure Camille (da camellia, come gli anglosassoni chiamano la camelia, usando pari pari il termine scientifico dato a quell’arbusto ornamentale da Linneo, in onore del gesuita Kamel che lo portò in Europa dal Giappone), oppure Violetta (come la ribattezzò Francesco Maria Piave, scrivendo il libretto di La Traviata per Giuseppe Verdi). E cominciò ad affrontarlo assai presto, se dobbiamo dare credito alle storie del cinema che ravvisano il primo approccio in una pellicola del 1907, prodotta dalla Nordisk Film di Copenaghen e diretta da Viggo Larsen ex sottufficiale dell’esercito danese che all’inizio del secolo abbandonò le armi per abbracciare il mestiere, tutto sommato più avventuroso, del regista cinematografico. Comunque, tra le «signore delle camelie» del cinema muto spicca, se non altro per la curiosità che essa desta, quella del 1911, girata in Francia da Henry Pouctal con la Bernhardt nel ruolo della protagonista: una Bernhardt che all’epoca aveva già superato i sessant’anni e che tornava sul set, dopo una catastrofica Tosca, solo perché braccata da una turba di creditori, che l’avrebbero tormentata fin sul letto di morte. «Cosa ne uscirà, non so dirlo», confidò a un cronista mondano venuto a trovarla sul luogo delle riprese. Pare che quando finalmente si vide sullo schermo, svenne dallo spavento. Ma non poté ritirare il film dalla circolazione, come aveva fatto col precedente, poiché esso era già stato venduto al mondo intero, ivi compresi gli Stati Uniti, dove sarebbe stato distribuito da Adolph Zukor, il fondatore della Paramount.
In ogni caso l’esito fallimentare dal punto di vista artistico di Sarah Bernhardt non scoraggiò le altre star dell’epoca. Specie in Italia, dove il personaggio andò a ruba, al punto di provocare nel 1915 una selvaggia gara tra Francesca Bertini e Olga Mambelli (in arte Hesperia), gara vinta per qualche settimana (distacco che al cinema vale il fotofinish dell’atletica) dalla Hesperia, diretta dal marito, l’intraprendente conte Baldassare Negroni.

Greta Garbo e Robert Taylor
Ci si domanderà se e come in tutti questi film venisse usata la partitura verdiana. Anche se le notizie sono incerte, è presumibile che essa fosse presente più nei film muti che in quelli sonori. La musica era un additivo immancabile del cinema muto. Nella fattispecie nulla ostava a che l’esercente utilizzasse per l’accompagnamento le pagine più celebri di La Traviata, usando il grammofono anziché l’abituale strimpellatore al pianoforte. Coll’avvento del sonoro, invece, si preferì spesso, specie in Francia, ricorrere a partiture originali che nulla avevano in comune con quella di Verdi e forse era meglio così, meglio del pastrocchio combinato da Herbert Stothart col commento simil verdiano che nel 1936, appiccicò a Camille (Margherita Gauthier) di George Cukor: forse unico neo di un film peraltro bellissimo, che offrì alla Garbo il ruolo più memorabile della sua breve carriera.
Per il cinema italiano il discorso è stato, com’è ovvio, diverso. Usare quel personaggio senza la musica di Verdi sarebbe stato fisiologicamente impossibile. Dumas avrebbe finito per cedere necessariamente il passo a Francesco Maria Piave, anche se ciò avvenne attraverso una via contorta, indicata da quell’amabile manipolatore di melodrammi che fu Carmine Gallone. Gallone nel 1940 utilizzò per La Traviata lo stratagemma dell’«opera parallela», da lui inventato nel 1935 con … E lucean le stelle e sperimentato nuovamente nel 1939 con Il sogno di Butterfly. Esso consisteva essenzialmente nell’assumere a protagonisti degli esecutori, vittime nella vita dello stesso dramma occorso ai personaggi che essi interpretavano d’abitudine sulla scena. Dietro questo espediente si poteva ravvisare pure il tentativo dell’Italia fascista di conquistare al cinema nazionale qualche mercato straniero, puntando sulla popolarità del nostro melodramma. Non bastavano all’uopo, né la pura e semplice registrazione audiovisiva dell’opera, né la libera versione del libretto (il quale tra l’altro verteva quasi sempre su fatti di sangue e crimini atroci in pieno disaccordo coll’immagine del Paese, che il regime voleva offrire in Italia e all’estero). In Amami Alfredo!, terzo esperimento condotto da Gallone su questa via, la sorte di Violetta era riservata nella vita alla bellissima cantante moldava Maria Cebotari, che emerse sugli schermi e nei teatri d’opera durante gli anni Trenta e Quaranta, per morire prematuramente a Vienna il 9 giugno del ’49, all’età di 39 anni.

Anna Moffo
Il film-opera di Zeffirelli
Nel dopoguerra, invece, Gallone tornò più sbrigativamente a La Traviata, filmandola nel’47 senza mediazioni, utilizzando nel ruolo di Violetta la cantante Nelly Corradi, ma doppiandola colla voce di Ornella Fineschi. E altrettanto fece nel 1967 Mario Lanfranchi, impiegando voce e volto della moglie Anna Moffo. La terza riduzione di La Traviata per lo schermo, l’abbiamo avuta nel 1983 ad opera di Franco Zeffirelli, ma in un contesto molto diverso: quello del film-opera, dove non è la popolarità dell’opera a trainare il cinema bensì quella del cinema a trainare l’opera. In altri termini: dove gli stilemi del cinema prevalgono su quelli dell’opera. Zeffirelli porta la nuova tendenza alle sue ultime conseguenze. La musica di Verdi viene tranquillamente violentata, cioè tagliata, ripetuta o proposta secondo le superiori esigenze dello schermo: il preludio dell’atto primo è trasformato con una intuizione non banale, bisogna ammetterlo) nella prolusione a un lungo flashback che comprende tutti interi i primi tre atti; il play-back, croce e delizia di tali operazioni, è usato con una spregiudicatezza senza pari, fino a trasformare brani delle arie e delle romanze in interventi fuori campo a mo’ di monologo interiore (così il cantante in campo si evita il fastidio di dover far finta di cantare e può badare meglio alla sua «fotogenia» e alla sua espressione); il personaggio del medico è soppresso e, con lui, la famosa frase «La tisi non le accorda che poche ore»; la scena del ballo risulta di lunghezza quasi doppia di quella prevista, con opportune iterazioni della musica, per mettere in maggiore evidenza il virtuosismo dei danzatori del Bolscioi e aumentare il tasso di spettacolarità della pellicola; la musica stessa in alcune scene è sopraffatta dal realistico zoccolio dei cavalli. Il risultato è che Verdi viene trasformato in un «musicista da film», alle volte troppo invadente, altre volte troppo discreto, quasi gli mancasse l’esperienza di un Bernard Herrmann, o di un Miklos Rosza, o – se volete -dello stesso Shostakovic, che alternava questa attività a quella di «musicista puro». Dobbiamo condannare Zeffirelli per le libertà prese con un testo musicale che molti considerano sacro? Il problema non è questo: non lo è soprattutto in un’epoca come l’attuale, definita postmoderna, nella quale l’arte spesso sopravvive grazie ai trapianti cui la sottopongono i suoi ministri più illuminati, tra sformando in virtù l’impurità e l’imbastardimento, che in altre epoche sarebbero stati considerati vizi orrendi. Del resto, l’uso sempre più intensivo dei registi di cinema nelle medesime liriche si risolve quasi sempre in una violenza sull’opera. Per un Luchino Visconti che puntò sull’integrale rispetto della partitura e delle sue indicazioni quanti sono i registi che si divertono a contaminarla? Sarà interessante a tale proposito verificare come si è comportata Liliana Cavani con la stessa Traviata, la cui prima alla Scala ha luogo dopo la stesura delle presenti note: appurare se la regista di Francesco e di Il portiere di notte si è attenuta alle regole di Visconti, del quale molti la considerano erede, oppure si è accodata alle bizzarre esperienze di un Ken Russell, che ha rinchiuso Cho-Cho-San in un bordello di Hiroshima e ha fatto morire Mimì per una overdose di eroina.