di Carlo Delfrati

Amadeus n. 5 aprile 1990: ha inizio la pubblicazione della rubrica “Le Parole della musica” a cura di Carlo Delfrati, uno dei maggiori esperti in didattica musicale e autore di diffusissimi corsi per le scuole medie.
Con questa rubrica si è cercato di chiarire il significato di alcuni dei più frequenti (ma anche dei più insoliti) termini usati dagli addetti ai lavori.
La rubrica Parole della musica si protrae fino al n. 73 del dicembre 1995 e viene sostituita dalla rubrica Scuola cui farà seguito il supplemento ScuolAmadeus.

Nel 1870, la Chiesa cattolica promulga il dogma dell’infallibilità papale. Allora come sempre, uno dei mezzi più efficaci per la diffusione dei principi religiosi è il canto comunitario. Fiorisce da quel momento una quantità di inni dedicati al Papa, di autori noti e ignoti. Le orecchie dei fedeli non più giovanissimi ricordano le canzoni, aleggianti fino agli anni Cinquanta, nelle pievi di campagna o nelle chiese parrocchiali: «Noi vogliam Dio…», «Bianco Padre…». Ebbene, si tratta di marce in piena regola: un inequivocabile segno sonoro del concetto che si voleva con quel dogma affermare, il concetto di autorità. La musica di marcia, si diceva nei numeri scorsi, porta in sé questo significato. Nelle nostre chiese era presente nei modi più imprevisti. Una pagina di Lorenzo Perosi, l’inno Pietà Signor, celebra, come nel canto dei sacerdoti di Aida, un matrimonio ancestrale: tra la spada e il turibolo, la patria e l’altare. In questo matrimonio tra il potere religioso e il potere civile, il primato è conteso da entrambi. E mentre le marce patriottiche pullulano di «Deutschland über alles», di «Patria al di sopra di qualsiasi altra cosa», sull’altro versante il primato è sbandierato fin nei luoghi più innocenti, come in quell’Ave Maria di Lourdes che contiene il celebre ritornello parodiato nelle occasioni conviviali («Ave, ave, avemo fame»), e la cui strofa sessantottesima (sic!) recita: «Devoto al pastor / d’Italia il vessil / dimostri l’amor / di tenero ovil». Amore-devozione-obbedienza-autorità … La pecorella che nell’Ave Maria di Lourdes segue amorosamente il pastore, sulla dolce nenia a misura ternaria, nel non meno celebre Inno eucaristico si rimette in marcia, come un soldato fedele al suo re: «Inni e canti sciogliamo fedeli / al divino, eucaristico Re…». In questi Inni al Papa anche i testi insistono sull’equazione fedeli / pontefice

soldati/condottiero. E le loro musiche non sono che varianti del più elementare cliché «marcettistico». Se la Chiesa ha da tempo ritirato questi inni dal repertorio d’uso, altre musiche di marcia sopravvivono nel culto, così come nei riti civili. A cominciare dalla marcia funebre. Ma cosa c’entra la marcia con il lutto? Chi marcia ai funerali? In che occasioni? Certamente non nelle occasioni di tutti i giorni. Un funerale oggi è un rito molto privato. E nessuno si sognerebbe di marciare. La marcia ha qualcosa di ufficiale: è destinata alle grandi occasioni. Camminare – idealmente, se non materialmente – allo stesso passo, può significare una cosa sola: una sorta di «unisono» morale; il gruppo si sente come una sola persona nell’omaggio reso allo scomparso. E ciò si verifica quando lo scomparso è una persona eccellente; o, meglio, quando lo scomparso è proposto come un «modello di vita»: da seguire, quindi da ossequiare. Nella storia della musica, la marcia funebre viene coltivata come genere soprattutto dal XVIII secolo, con i tombeaux degli autori francesi. L’epoca napoleonica amplierà il repertorio, fino al culmine rappresentato dall’Eroica di Beethoven, e dalle pagine pianistiche delle sonate di Beethoven e di Chopin. Se nell’Eroica Beethoven aveva in mente un modello «alto» per eccellenza, Napoleone, nel Crepuscolo degli dei il modello è, se si può dire, ancora più alto. Sigfrido, l’eroe che Wagner accompagna al rogo nella tragica conclusione della sua Tetralogia, è addirittura un semidio, vagheggiato dal suo autore, sublimato, posto quale fulcro dinamico dell’universo dei Nibelunghi e del Walhalla, delle Walkirie e dell’oro fatale. Nel costruire questo finale, nella forma solenne dei temi e nel loro accostamento, nei poderosi crescendi e nella timbrica squillante, Wagner ci offre una concezione «titanica» dell’esistenza. Intorno al super-eroe morto, la venerazione dei sopravvissuti prende la forma di una marcia. La marcia è un riconoscimento sociale. Chi se l’immaginerebbe una marcia a suggellare la fine di Violetta o di Mimì. Quale «riconoscimento sociale» potremmo mai aspettarci intorno ai loro poveri giacigli? Ma la povera persona comune sa prendersi la sua rivincita. Otto anni dopo la prima esecuzione del Crepuscolo degli dei, una sinfonia che accidentalmente s’intitolava Il Titano sembra condurre all’estremo riposo proprio l’uomo di tutti i giorni, il povero diavolo alle prese con le mille difficoltà della vita reale, l’antieroe, impastato di grandezza e di banalità. La pagina più famosa della sinfonia è ancora una volta una marcia funebre, che l’autore costruisce, come fa Wagner, mediante un collage di temi. Ma a differenza di Wagner, qui niente timbrica squillante, soprattutto niente terni solenni. In loro vece, motivetti da due soldi, a cominciare dal celebre Fra Martino, proposto secondo la tradizione a canone, e umiliato dal modo maggiore al minore. Non staremo a insistere sulla finezza straordinaria con cui l’autore arrivava a riplasmare in una struttura complessa i «materiali poveri» utilizzati. Il pubblico delle prime esecuzioni ne restò scandalizzato. Non poteva accettare, otto anni soltanto dopo quella pietra miliare del gusto musicale ottocentesco, una dissacrazione così brutale del grande modello wagneriano. E invece Gustav Mahler chiamava idealmente a raccolta il suo pubblico, l’umanità, intorno a un nuovo ordine di valore: li invitava – li invita – a scendere dal cielo degli ideali astratti alla terra della concreta esistenza individuale.

(Amadeus n. 68 luglio 1995)