di Carlo Delfrati

Amadeus n. 5 aprile 1990: ha inizio la pubblicazione della rubrica “Le Parole della musica” a cura di Carlo Delfrati, uno dei maggiori esperti in didattica musicale e autore di diffusissimi corsi per le scuole medie.
Con questa rubrica si è cercato di chiarire il significato di alcuni dei più frequenti (ma anche dei più insoliti) termini usati dagli addetti ai lavori.
La rubrica Parole della musica si protrae fino al n. 73 del dicembre 1995 e viene sostituita dalla rubrica Scuola cui farà seguito il supplemento ScuolAmadeus.

Si dice comunemente che la musica sia per eccellenza l’arte del tempo, mentre le forme visive sono le arti dello spazio. La musica infatti sembra sottrarsi alla possibilità di riferirsi allo spazio, e tanto meno di rappresentarlo; le opere visive, «ferme» come sono, si offrono per intero al colpo d’occhio del fruitore, e sembrano escluse dalla possibilità di scandire o di rappresentare, come sa fare la musica, il fluire del tempo. Ma se scendiamo oltre l’apparenza superficiale, troviamo che le cose non stanno affatto così.
Se l’opera visuale è ferma, l’occhio che la osserva «Si muove» lungo le linee della composizione: guardare una cattedrale, una statua, un quadro è un’esperienza che si svolge nel tempo proprio come avviene con la musica: il tempo «entra» per così dire, come una dimensione fondamentale dell’opera d’arte. Senza contare gli innumerevoli espedienti adoperati dagli artisti di ogni civiltà per rappresentare il movimento, e quindi il tempo: la celebre ruota delle Filatrici dell’arazzeria di Santa Isabella di Diego Velazquez – al Museu del Prado – era un modo (tanto audace per quei tempi) di mostrare non l’oggetto (la ruota con tutti i suoi raggi ben individuati a uno a uno), ma il movimento che l’oggetto compie nel tempo (e quindi i raggi spariscono dalla percezione reale).
Un’osservazione analoga – e rovesciata – possiamo fare a proposito della musica. Il concetto di «altezza» sta a mostrarci la consapevolezza, posseduta dal musicista stesso, della possibilità della sua arte di rendere l’idea della spazialità.
Fisicamente, l’altezza di un suono è determinata dal numero delle oscillazioni del corpo vibrante che le produce: più alto è il numero, più alto è il suono. L’orecchio umano medio percepisce rombi di 16 oscillazioni al secondo, su su fino a sibili di 16.000 (numerosi animali percepiscono anche suoni più alti: gli ultrasuoni). Una tastiera offre a sinistra il suono più basso, e progressivamente verso destra i più alti. Per quei processi percettivi e culturali che sono alla base della comunicazione e della simbolizzazione umana, si opera una assimilazione tra frequenze alte e spazio alto, e tra frequenze basse e spazio profondo. Non è la sola convergenza. Lo sa bene ogni maestra, quando cerca di spiegare ai suoi bambini che produrre suoni alti è cosa ben diversa da produrre suoni forti: «forte» indica intensità, non altezza. Succede infatti che quando la voce di chi parla aumenta d’intensità, tende anche a salire in altezza («alzare la voce», si dice comunemente). Questa convergenza è assecondata dalle «buone regole» dell’esecuzione musicale: a una melodia che sale s’addice un crescendo d’intensità; a una che scende, un diminuendo; un acuto è di solito forte, o fortissimo: quando un compositore scrive un acuto pianissimo sa di chiedere al cantante una cosa molto difficile (e così deludente per il pubblico!).
Il concetto di «acutezza» è un altro esempio di convergenza (gli psicologi parlano di «sinestesie»): l’alta cima di un monte è «acuta», ed ecco che nei suoni «alto» e «acuto» diventano sinonimi; viceversa la legge di gravità ci spinge verso il basso, ed ecco diventare sinonimi «basso» e «grave».
Queste convergenze spiegano certi simbolismi elementari diffusi nelle opere musicali. Quando Aleksandr Borodin attacca il suo schizzo sinfonico Nelle steppe dell’Asia Centrale, è un mi sovracuto dei violini quello che sentiamo. «Sotto il cielo luminoso avanza una carovana…» lo descrive l’autore stesso: assimilazione di sonorità estrema con spazio estremo.
Quando invece Edvard Grieg introduce il suo Nell’antro del re della montagna dal Peer Gynt, o Modest Mussorgskij ci fa entrare nelle Catacombe dei suoi Quadri, possiamo tranquillamente aspettarci la sonorità «Cupa» delle profondità «gravi».
Quanti finali operistici chiudono con le sonorità più acute: e allora l’altezza fisica viene a coincidere con altezza psicologica e morale. Il suono acuto cessa di significare spazialità fisica e passa a fissare una spazialità più sottile e astratta. Vedremo una prossima volta questa dialettica dell’«alto» e del «basso», in alcuni finali esemplari, a cominciar e da quello verdiano di Aida.

(Amadeus n. 37 dicembre 1992)