di Carlo Delfrati

Amadeus n. 5 aprile 1990: ha inizio la pubblicazione della rubrica “Le Parole della musica” a cura di Carlo Delfrati, uno dei maggiori esperti in didattica musicale e autore di diffusissimi corsi per le scuole medie.
Con questa rubrica si è cercato di chiarire il significato di alcuni dei più frequenti (ma anche dei più insoliti) termini usati dagli addetti ai lavori.
La rubrica Parole della musica si protrae fino al n. 73 del dicembre 1995 e viene sostituita dalla rubrica Scuola cui farà seguito il supplemento ScuolAmadeus.

Il nome di questa danza (in italiano polonese o anche polacca) è indissolubilmente associato all’arte di Chopin, che in forma di polonese ha scritto alcuni dei suoi più noti capolavori. In realtà Chopin è l’ultimo anello di una lunga catena che ha tra gli immediati predecessori i suoi stessi maestri, Zywny ed Elsner. In questa catena non troviamo solo nomi polacchi; anzi, da Bach (che ha inserito polonesi in suites per cembalo e per orchestra) in poi; restiamo sorpresi nel leggere il catalogo degli autori che vi si sono dedicati: Telemann, Goldberg, Händel, Couperin, Friedemann Bach, Schobert, Mozart, Beethoven, Weber; e poi Schubert, Schumann, Liszt, Glinka, Ciaikovskij … che cosa in questa danza attirava tanto i compositori del Sette e dell’Ottocento? Certamente il suo carattere, il suo spirito, e lo spirito del mondo culturale che evocava. Lo troviamo magistralmente raccontato dal più illustre degli scrittori polacchi del tempo, Adam Mickiewicz, nel suo poema Il Signor Tadeusz; nonché da uno dei più appassionati ammiratori di Chopin, Franz Liszt: «Una forza calma e meditata – sono parole di Liszt – un’intelligenza vivida, una devozione profonda e ragionata insieme, un coraggio indomabile mescolato a una galanteria che non abbandonava mai i figli della Polonia, neppure sul campo di battaglia la vigilia o il giorno dopo il combattimento». Lo stesso Liszt lamentava che il nome della danza fosse stato tradotto al femminile: il nome originario era maschile, perché non la donna, ma l’uomo era al centro dell’azione danzata. Una danza aristocratica, dunque, la polonese, il più delle volte associata a situazioni marziali e cerimoniali. Non è un caso che l’inno nazionale russo, prima del celebre inno zarista in voga fino al 1917, fosse una polonese, scritta da Josef Kosowski. Con questo spirito la polonese si diffuse per tutta l’Europa fin dall’inizio del XVII secolo. Ma le sue prime origini non erano aristocratiche. Erano contadine. Si trattava di musiche di danza suonate ma anche cantate, che accompagnavano i momenti importanti della comunità, in particolare i matrimoni. Di quelle prime canzoni per danza non ci resta nulla, perché la tradizione popolare non usava la scrittura: la più antica collezione che possediamo è quella di un manoscritto del 1772. In quell’epoca la danza era già diventata patrimonio dell’aristocrazia e si apprestava all’ultima metamorfosi: quella che l’avrebbe fatta diventare una delle danze predilette dalla borghesia. «Il carattere primitivo della danza polacca è alquanto difficile da cogliere ora – scrive ancora Liszt alla metà dell’Ottocento – tanto essa è degenerata». Come avverrà per gli altri balli, anche per questo, il fatto di diventare popolare comportava un appiattimento, una banalizzazione dei passi di danza (ridotti a semplici passeggiate in circolo) e delle musiche relative.
Dalla sala da ballo alla sala da concerto: come era avvenuto per il minuetto, i compositori, da Bach a Chopin, liberano la polonese dai suoi legami con il ballo e compongono pezzi da suonare e da ascoltare semplicemente. Anche la polonese subisce lo stesso processo di stilizzazione e di organizzazione formale del minuetto. Viene organizzata in tre parti, la prima e l’ultima uguali fra loro, quella di mezzo (che si chiama trio come nel minuetto) molto diversa. Le sue caratteristiche musicali, come c’è da aspettarsi da musiche nate per il ballo, sono soprattutto ritmi che un movimento non agitato ma sostenuto; una misura ternaria (come quella della mazurka, e anzi in certe regioni della Polonia, il confine tra polonese e mazurka non era netto); e infine una cellula ritmica iniziale scattante. Sentiamo molto bene tale cellula dominare largamente la polonese op. 40 n. 1 di Chopin. Il carattere «bellicoso» di questo tipico ritmo lo fece prediligere anche ai compositori d’opera, per le più veementi cabalette: chi non ricorda l’attacco strumentale del verdiano «Di quella pira»? È una polonese, appunto. Un ritmo così netto e inconfondibile da esercitare attrattive anche al di là delle situazioni di partenza: Elsner, il citato maestro di Chopin, lamentava fin dal 1811 come «tutto quel che oggi piace è trasformato in polonese». Si riferiva all’uso di piegare qualunque musica sotto il ritmo tipico di questa danza. Così possiamo trovare l’inno nazionale inglese trasformato in polonese da Karol Kurpinski nel 1812. E che dire di un’aria dalla Gazza ladra di Rossini, anch’essa «polonizzata»? Da dire, o da ridire, in verità non c’è nulla. A giustificare una scelta come questa non è solo il fatto che l’autore della «polonizzazione» di Rossini è il medesimo Chopin, nella sua polonese Adieu: ma semplicemente è qui in gioco la pratica della variazione, antica come la musica stessa.
E la frequenza con cui troviamo temi famosi variati «alla polonese» è una testimonianza di più del suo straordinario successo.

(Amadeus n. 26 gennaio 1992)