In occasione dl decennale della morte di Claudio Abbado, avvenuta a Bologna il 20 gennaio del 2014, iniziamo la pubblicazione di tutti gli articoli dedicati da Amadeus al grande direttore d’orchestra, protagonista della vita musicale del Novecento e di questo primo scorcio del nuovo secolo.
È stato inevitabile che, fin dal primo numero, la nostra attenzione fosse rivolta al Maestro da poco eletto a una delle cariche più prestigiose: quella di direttore dei Berliner Philharmoniker.

(Aprile 2001 – Amadeus n. 137)

Una prassi inusitata

di Duilio Courir

I concerti beethoveniani di Claudio Abbado con i Berliner Philharmoniker a Roma e a Vienna sono stati un esempio di scelte critiche, di fantasia interpretativa e di maturità artistica. Pochi sono rimasti indifferenti davanti alla lezione musicale e morale che Abbado ha dato al pubblico accorso a Santa Cecilia e he ha dilagato dall’auditorio romano alle strade e ai luoghi di incontro romani generalmente occupati a parlare di calcio, di Sanremo o dei piccoli commerci legati alle clientele politiche. È stato qualcosa che non ci aspettavamo in tale misura e che forse era perfino impensabile.
Ma ancora più impensabile era che i Teatro alla Scala si accorgesse dell’esistenza di Claudio Abbado che nel teatro milanese ha passato diciotto anni della propria vita e che il direttore musicale Riccardo Muti sentisse l’urgenza di un invito pubblico con la proposta ad Abbado di tornare a dirigere nel teatro dal quale è assente esattamente da quindici anni. Tralasciamo il sovrintendente Carlo Fontana che non perde occasione per definire la Scala «il più grande teatro del mondo», che cerca di intimidire la stampa in vario modo e che approfitta di discutibili norme di sicurezza per impedire ai loggionisti di accedere ai posti che la storia e la tradizione teatrale hanno riservato loro. Ma Riccardo Muti ha un diverso modo di vivere le sue responsabilità altissime, come ha potuto dare prova a Salisburgo e a Milano, per non sapere che gli artisti i teatri se li conquistano in forma meno roboante e con mezzi meno ostentati e plateali di una lettera pubblica uscita sulle pagine del maggiore giornale milanese, cose che vanno bene per altri tipi di spettacoli dove si tiene conto dell’audience, non certo di un teatro, grande o piccolo che sia.
I direttori si scritturano secondo formule sommesse, personali e fiduciarie che dovrebbero essere note a chi dirige un’istituzione come la Scala ed è sorprendente che un teatro che da duecento anni scrittura artisti abbia bisogno di lettere aperte per invitare un direttore che proprio alla Scala è stato di casa per una non piccola parte della sua vita.
Del resto, che questo invito pubblico non abbia un gran senso e che riveli piuttosto una sconnessione di rapporti e di valori lo si può desumere dal fatto che per lo stesso Giuseppe Verdi, dopo gli esordi rimasto assente dal teatro milanese per oltre trentacinque anni, furono usati dai dirigenti scaligeri del tempo canali del tutto semplici e nel segno della tradizione per trattare il suo ritorno nel grande teatro milanese dove si tennero le «prime» delle sue ultime opere liriche, Otello e Falstaff.
È questa squalifica della misura consueta dei rapporti fra musicisti che certo si stimano e non sono in competizione l’uno con l’altro che fa venire in primo piano la domanda spontanea se si siano accorti adesso che Abbado dirige come sa dirigere lui, che dirige bene, anche se adesso la sua maturità ha raggiunto certi contenuti, certi pensieri e ha condotto la sua direzione a dei traguardi interpretativi ulteriori, traguardi che a Vienna sono stati salutati come una grande svolta nelle sue sfide e come un fatto epocale. Queste scoperte improvvise vanno bene per la Rai dove, a parte l’episodio Abbado, non capiscono niente oltre i confini di Sanremo, ma non dovrebbero valere per la Scala.
Il secondo problema che la lettera di Muti mette nelle condizioni di tirar fuori è il «cahier de doléances» in una forma più estesa ed ampia di quello che è stato proposto fino adesso. È vero, Claudio Abbado ha ricevuto più di un invito alla Scala, ma come si fa ad accettare un invito di questo genere quando è stato cancellato il premio «Bacchetta d’oro» quando questo doveva essere assegnato, dopo Muti, Kleiber, Gavazzeni, Sawallisch, proprio ad Abbado? Per partecipare a questa consegna Abbado aveva posto una sola condizione, che insieme alla «Bacchetta d’oro» per lui ci fossero anche due borse di studio per giovani musicisti di dodici milioni l’una, una richiesta che da molto tempo non si dimentica mai di fare e che fa parte della sua politica di attenzione verso le nuove generazioni musicali. Le borse di studio i un primo momento sembrava fossero state trovate, ma prima della cerimonia gli è stato detto che non c’erano più. E della «Bacchetta d’oro» non si più parlato, per sempre.
Quanto il clima poi fosse poco favorevole al ritorno di Abbado lo si comprese dalle reazioni scomposte che, sollecitate dal «più grande teatro del mondo», si ebbero nel 1998 alla voce che il direttore milanese avrebbe diretto il Don Giovanni in ricordo di Giorgio Strehler, nella data programmata dal Piccolo Teatro, una data non lontana da quella di Sant’Ambrogio. Ci fu in quell’ occasione una reazione di panico e fra le molte scioccaggini che si dissero ci fu quella che al Piccolo competeva di fare prosa e non opera. In realtà allora Abbado non aveva preso nessun impegno preciso. Qualcuno gli aveva parlato della cosa ad Aix dopo la «prima» al festival. Certo c’era in lui, si può presumere, il desiderio di fare questo omaggio all’artista e all’amico di tante imprese interpretative, ma davanti alle reazioni dell’altra istituzione e anche delle istituzioni politiche comunali, lasciò cadere ogni cosa. Resta, indelebilmente, il fatto che quel capitolo è pura vergogna della politica e della cultura milanese e dell’assenza di reazione della città. È la dimenticanza di tutte queste cose che sorprende e anche in­ quieta perché ha l’aria di partecipare di una generale presunzione che nei confronti di Abbado non ha ragione di essere e in generale non dovrebbe essere il principio che regola i rapporti di una istituzione di cultura con la società tutta.
Quello che è successo a Vienna, capitale che Muti conosce benissimo e dove è enormemente apprezzato, ma anche città capace di gestire il proprio passato con intelligenza e lungimiranza, può forse insegnare qualcosa. In questa capitale della musica lo stesso giorno nel quale Claudio Abbado ha diretto alle otto di sera la Nona di Beethoven con i Berliner, Pierre Boulez ha guidato, alle tre del pomeriggio i Wiener Philharmoniker nella Terza sinfonia di Gustav Mahler senza che alcuna critica si alzasse contro questo accostamento e anzi tutti comprendessero il significato per Vienna di questo incontro musicale ravvicinato fra due grandi istituzioni e due grandi direttori del nostro tempo. Non per caso, del resto, proprio nella capitale austriaca avrà luogo, nel maggio dell’anno prossimo, il congedo di Abbado dai Berliner con un con­ certo e con un altro concerto, guidando i Wiener Philharmoniker, sir Simon Rattle, successore di Abbado contribuirà a dare un profilo memorabile a questa giornata che si concluderà con una festa comune.
Questo significa saper cogliere le occasioni che la storia offre alla società civile, è questa una lezione che viene da Vienna, dalla sala del Musikverein, una sala – mi disse Marcel Prawy – che è per i musicisti quello che è per i cattolici il Vaticano. Soltanto che i nostri uomini di potere, con l’eccezione esemplare del presidente Ciampi, anche i laici o presunti tali, sanno prendere lezioni solo dal Vaticano.
Dopo il successo dei concerti romani la Scala ha rivolto un invito pubblico a dirigere a Claudio Abbado.