In occasione dl decennale della morte di Claudio Abbado, avvenuta a Bologna il 20 gennaio del 2014, iniziamo la pubblicazione di tutti gli articoli dedicati da Amadeus al grande direttore d’orchestra, protagonista della vita musicale del Novecento e di questo primo scorcio del nuovo secolo.
È stato inevitabile che, fin dal primo numero, la nostra attenzione fosse rivolta al Maestro da poco eletto a una delle cariche più prestigiose: quella di direttore dei Berliner Philharmoniker.

(Giugno 1998 – Amadeus n. 103)

Passioni di cartapesta: il caso Abbado

di Duilio Courir

Poche persone dell’ambiente musicale amano quanto Claudio Abbado la riservatezza e la misura seria della vita e pochissime sono quanto il direttore milanese trascinate con ogni pretesto in polemiche fatue che non hanno alcuna ragion d’essere e alle quali Abbado oppone per fortuna commenti sempre più secchi o silenzi perentori. Da ultimo è avvenuto al momento del suo annuncio che avrebbe lasciato la direzione dei Berliner alla scadenza fissata da contratto per evitare forse che trasparisse qualche sempre possibile segno di usura e lo scatenarsi delle illazioni giornalistiche sul suo presente e sul suo futuro.
Drammatizzare i rapporti che non appartengono ai risultati è diventato una nostra specialità anche se porre un’eccessiva attenzione al versante social-mondano­pettegolo dei fatti musicali va contro il corso delle cose dal momento che i valori dovrebbero essere sempre ricollocati nel giusto gradino della loro scala.
Si deve apprezzare anche per questa ragione la meditata e inoppugnabile risposta che Abbado ha fornito («non sono disponibile per quella data per impegni presi in precedenza») all’indispettita reazione di tanti ambienti ufficiali e all’agitazione scomposta di tanti attori veri o presunti e comparse della vita milanese alla notizia che il direttore dei Berliner avrebbe diretto la sera dell’otto dicembre una recita del Don Giovanni con la regia di Peter Brook nello spazio del Nuovo Piccolo Teatro. Lasciando per alcuni giorni che tutti si agitassero dicendo tutto e il contrario di tutto e reinventando la realtà a proprio piacimento, Abbado ha posto fine con poche, semplici parole alla commedia.
Ci sarebbe stato in ogni modo solamente da rallegrarsi che Claudio Abbado tornasse a dirigere un’opera a Milano dopo dodici anni di assenza, e questa decisione avrebbe dovuto lusingare il suo orgoglio di capitale della cultura europea, invece tutto è stato immiserito in una serie di polemiche e di riserve che sembravano voler scongiurare anziché favorire questo ritorno.
In primo luogo ci si è adombrati per la scelta dell’otto dicembre (giorno della prima del Don Giovanni al Piccolo) così vicino a quella di Sant’Ambrogio. Ora sarebbe giusto che a Sant’Ambrogio i milanesi andassero alla Messa, quelli che ci credono naturalmente, e poi la sera a teatro. La «prima» come rituale è una degradazione che fa passare in secondo piano il significato culturale della serata. Solamente in Italia si ingigantisce al massimo questa occasione di musica con una «prima» che negli altri paesi europei non esiste dal momento che i teatri sono aperti tutto l’anno, fornendo in tal modo una occasione d’oro ai portoghesi della vita che vivono come campioni di mondanità, di défilés e di chiacchiere.
Si è tentato poi di contrapporre o di esaminare l’opportunità di accostare l’esecuzione del Gotterdämmerung a quella del Don Giovanni, una pura scioccaggine. Sarebbe come discutere se sia il caso di mettere la Gioconda di Leonardo accanto alla Primavera di Botticelli o se devono stare vicini o lontani.
Si trattava di comprendere che il Gotterdämmerung diretto da Riccardo Muti è una di quelle offerte musicali da non perdere come lo è il Don Giovanni diretto da Claudio Abbado. Ciascuno dei milanesi sarebbe andato allo spettacolo che ama di più o più semplicemente avrebbe cercato di non mancare a nessuno dei due.
Milano ha la possibilità di assorbire pubblico in maniera che forse non è neppure possibile immaginare e che le quasi cinquanta repliche del Così fan tutte proprio al Piccolo hanno ben dimostrato.
Del resto dove c’è un grande consumo di musica ci sono diverse e numerose opportunità. Così è a Parigi, a Vienna, a Berlino. a Londra Non si comprende per mai quale ragione il teatro lirico dovrebbe funzionare da noi in regime di monopolio.
Se poi il secondo teatro deve identificarsi come una modalità per fare dei dispetti, allora finisce di essere un teatro: infatti o sono dei teatri o sono dei «dispetti».
Quanto alla rivalità fra due teatri o due direttori, non è possibile neppure cominciare a trattarla come tale, perché è la traduzione dell’argomento come viene considerato da un certo ambiente. Si deve semplicemente criticare un ambiente che si alimenta di una voce così meschina come la rivalità che racconta motivazioni dei responsabili che dovrebbero ignorarla.
Si tratta di una materia tutta fittizia. I centri di musica dovrebbero essere in ordine e tenere in ordine senza dubbio i conti economici ma anche i conti culturali. Su questo terreno noi non possiamo incominciare a scendere. La rivalità non è un valore e noi fin dal primo numero abbiamo cercato di proporre e di essere una rivista di idee e di valori.
Si dirà che queste cose sono sempre avvenute anche ai tempi del Re Sole o di altri monarchi, per una cantante, per un castrato, per un attore. È vero, ma poi è venuta la ghigliottina.