di Rubens Tedeschi

(Pubblicato sul n. 124 di Amadeus, marzo 2000)

Anni di polemiche infuocate e di rivendicazioni nazionalistiche
tra i Cinque «dilettanti senza regole musicali» e i «principi»
dell’accademismo musicale, Rubinstein e Cajkovskij.

          Va ascritta al merito storico di Anton Rubinstein, pianista principe e fluviale compositore, la fondazione del Conservatorio di Pietroburgo nel 1862 e, due anni dopo, del Conservatorio moscovita assieme al fratello Nikolaj. Nemico dei «dilettanti», irride acidamente i «compositori di romanze» che «non si curano di apprendere le regole dell’armonia e della composizione, sostengono che la melodia è l’unico valore in musica, che tutto il resto è pedanteria tedesca, e finiscono con lo sfornare un’opera». La caricatura del Gruppo di Balakirev è velenosa, e i Cinque rispondono con pari virulenza, denunciando il tentativo di impiantare in Russia una sezione tedesca del Ministero della musica.
Come sempre accade, la polemica finisce per distorcere le ragioni: sotto lo scontro tra artisti «nazionali» e «occidentali» stanno i due metodi diretti a superare l’arretratezza russa: per Balakirev, Musorgskij e Kjui – i più intransigenti tra i Cinque -1’accademismo reazionario deve essere smantellato da posizioni di avanguardia (in accordo con le correnti europee più combattive), mentre per Rubinstein il progresso risiede nella solida classicità, soprattutto tedesca: «Ciò che ci entusiasmava», scrive nell’Autobiografia, «ciò che amavamo nella musica e che ci gettava ai suoi piedi, era morto con Chopin e Schumann». Come logica conseguenza, l’ordine scientifico della Germania preromantica costituisce il modello privilegiato.

Anton Rubinštejn

Non senza sfasature tra teoria e pratica. Mentre dichiara l’opera «un genere secondario», Rubinstein produce, oltre alle innumerevoli partiture sinfoniche e cameristiche, ben quindici lavori teatrali, apprezzati soprattutto nei paesi tedeschi dove Hanslick li considera un utile «antidoto» ai veleni wagneriani. Eguale lode toccherà alla Cavalleria Rusticana! In realtà l’accostamento tra Rubinstein e Mascagni vale soltanto per l’abbondante facilità di scrittura. Caratteristica del pari la disinvoltura nella scelta dei soggetti che, nel russo, passano dal sacro al profano, dall’orientalismo del Ferramors alla romanità del Nerone, non senza qualche incursione nella letteratura patria. Qui, ultima contraddizione, lo spregiatore del nazionalismo dà il meglio di sé. Il Demone, dal racconto di Lermontov, riuscirà a sopravvivere (almeno sulle scene russe) grazie al fascino dell’amorosa contesa tra l’angelo ribelle e la candida vergine: Byron alla russa, col trionfo finale della virtù, grazie all’intervento celeste come nel Faust. Avendo sfidato i Cinque sul loro terreno, Rubinstein volle presentare a loro lo spartito in anteprima, riscuotendo un educato apprezzamento come compositore e un trionfo come pianista. Equilibrato giudizio, se dobbiamo credere a Cajkovskij che, studiando l’opera, vi trovò «alcune cose piacevoli, ma parecchia zavorra».
L’opinione di Cajkovskij, si badi, compare nella lettera al fratello, del 17(29) ottobre 1874, assieme alle impressioni provocate dall’«attento esame» del Boris: «Con tutto il cuore, mando la musica di Musorgskij al diavolo: è la più volgare e la più spregevole parodia della musica». L’espressione tanto rozza quanto sincera è da mettere in parallelo con l’«io sono russo sino al midollo delle ossa», in una delle migliaia di lettere spedite a Nadezda von Meck. La rivendicazione verrà ricalcata, mezzo secolo dopo, nelle Cronache di Stravinskij dove la «spontaneità» dell’elemento nazionale di Cajkovskij è anteposta «all’estetismo dottrinario che i Cinque volevano imporre».

Un altro nazionalismo
Qui, come altrove, la pretesa di calcolare la temperatura della russicità con un termometro personale (Stravinskij pro Stravinskij) è futile. Per un motivo semplice: il nazionalismo non è un dato costante, ma varia secondo la personalità, l’epoca, le circostanze. È indubbio che Cajkovskij sia profondamente russo, ma in modo proprio. Allievo di Anton Rubinstein, diplomato nel 1866 al Conservatorio di Pietroburgo e to­ sto in cattedra a Mosca, subisce per qualche anno il fascino di Balakirev che lo guida nella composizione di Romeo e Giulietta. Subito dopo, la Seconda Sinfonia, pimentata di temi ukraini, spinge Stasov a proclamare che i Cinque sono diventati Sei. Illusione confermata dall’Opricnik. L’opera, applaudita a Mosca il 12 (24) aprile 1874, apre, con la fosca storia di amore e morte sotto il regno del terribile Ivan, la carriera teatrale di Cajkovskij. Siamo nei dintorni della Pskovitjanka. Non a caso il successivo Vakula il fabbro (rielaborato in Cerevicki, Scarpette) nasce all’ombra di Gogol, ma con un’inclinazione elegiaca che appare «lamentosa» al mordace Kjui. Esaurito così l’incerto idillio col Gruppetto potente, Cajkovskij si lancia all’inseguimento del successo teatrale, convinto che «solo il genere operistico offre il mezzo di comunicare con la massa del pubblico. L’opera, proprio soltanto l’opera», confida alla von Meck, «avvicina la musica al pubblico vero, ti rende patrimonio non soltanto di piccoli gruppi sparsi ma, in condizioni favorevoli, di tutti».
Imbarcato sul vascello del melodramma, troverà il vento infido. Colpa dei critici che gli negano la forza drammatica e colpa delle scelte eterogenee. Portato dalla natura all’intimismo («sull’effetto ci sputo», afferma), cade sovente nel grand-opéra, passando dalla Russia all’Occidente, con un occhio a Mozart («il mio Dio») e un altro alla Francia di Delibes, Bizet, Massenet. Di gran lunga più geniale di Rubinstein, ha in comune col suo maestro lo scarso controllo della propria vena e, abbandonandosi al­ l’ispirazione, rischia di scivolare nei luoghi comuni contro cui Balakirev lo aveva messo in guardia. Paradossalmente, mentre i «dilettanti» si impongono una severa disciplina, i campioni del «professionismo» si concedono comode indulgenze.

Pëtr Il’ič Čajkovskij

Il teatro di Caikovskij
          Da ciò la sorprendente diversità dei risultati. Il suo teatro – nel ventennio successivo a Cerevicki – può raggiungere le vette nell’Evgenij Onegin e nella Dama di Picche, arrestarsi a mezza strada nel fosco Mazepa come nella floreale Iolanta, o cadere nella mediocrità della Pulzella d’ Orléans o della Maliarda. Nell’arco disuguale, è significativo che i due capolavori nascano dall’incontro con Puskin. Non il Puskin a cui attinge Rimskij-Korsakov. Ma il sottile indagatore delle malattie dello spirito, il precursore delle sofferenze dell’enfant du siècle in cui il musicista si immerge con trepida delizia. Se Cajkovskij può «mandare al diavolo» Musorgskij, è perché vive con lui la crisi della Russia, ma in modo opposto. Sotto la benevola protezione dello Zar, assistito dal prodigo mecenatismo della ricca Nadezda von Meck, entra in punta di piedi nella verginale cameretta di Tatjana o nel boudoir della Contessa. A Mosca, come a Firenze o a Parigi, è l’uomo della città: varca i confini in comode carrozze ferroviarie, con sala da pranzo e scompartimento privato. Della campagna ha il sentimento manierato, riflesso nelle prime scene del1′Onegin, stilizzate, spolverate di temi popolari armonizzati e ripuliti come la pittura russa dell’epoca. Musorgskij trova o inventa le canzoni contadine, Cajkovskij le riveste di abiti civili. Ma quando entra finalmente in un palazzo, quando ascolta quella lingua metà russa e metà francese, quell’Eh bien, mon prince che apre la conversazione di Anna Pavlova nella prima riga di Guerra e pace, allora è perfetto. Ripesca un motivetto normanno per le strofette di monsieur Triquet, «il precettore francese della vicina», e un’arietta di Grétry per i ricordi della spettrale Contessa, e gusta sino all’ultima battuta le feste, i giochi, le mazurche e le polche in cui i drammi di Onegin e di Hermann si innestano con naturalezza. La stessa di Verdi quando ci conduce dal Palazzo Ducale di Mantova agli equivoci saloni di Flora Bervoix.

Un quadro ispirato all’opera “Evgenij Onegin” di Pëtr Il’ič Čajkovskij.

Ucciso dal colera, il 25 ottobre (6 novembre) 1893, Cajkovskij lascia una controversa eredità. Da un lato, quel tanto di enfasi retorica che, come la schiuma del bollito, affiora anche nelle opere migliori, gli assicura il primato negli anni del pompierismo sovietico. Dall’altro, la morbosa sensibilità continua ad affascinare gli esteti dei giorni nostri. Tuttavia, senza queste qualità, opposte e inscindibili, non esisterebbe il genio del musicista.

I nuovi talenti
          Lo dimostra, tra i successori, il devoto discepolo Sergej Taneev, autore, in sette anni di lavoro, di una monumentale Oresteja. Raccomandata da Cajkovskij e rappresentata, due anni dopo la sua morte, al Mariinskj, l’opera concentra la trilogia eschilea in tre massicci atti. Come uno scrupoloso giardiniere, Taneev pota a fondo l’albero del maestro lasciando i rami nudi, in un desolato inverno musicale. Della tumultuosa fantasia del modello, raggelata dalla sapienza scolastica, non resta nulla. Lo stesso Cajkovskij doveva nutrire qualche dubbio se tra i nuovi talenti elencava, negli ultimi mesi di vita, soltanto Glazunov, Arenskij e Rachmaninov. Una terna significativa per esclusione: i primi due non scrivono nulla per il teatro; Rachmaninov lo attraversa come un ospite che, invitato a cena, porta un modesto contributo. Tre atti unici bastano a esaurire, nel ’96, il suo interesse: Aleko, italianizzante e démodé, secondo l’autore stesso; Francesca da Rimini, imbottita di sinfonismo decorativo, e Il Cavaliere avaro, felicemente sopravvissuto. Tratto dalle Piccole Tragedie di Puskin, si rifà al modello dell’opera dialogata, anticipando, nell’apparizione dell’oro accumulato negli scrigni, la pompa del decadentismo. Sorprendente, nel trittico, l’eterogeneità stilistica: un estremo sguardo sull’Ottocento russo di cui il compositore pianista, tardo prodotto della scuola di Rubinstein, conclude l’esperienza, sottraendosi alle detestabili tentazioni del nuovo secolo.