di Luigi Gianoli

(Pubblicato sul n. 13 di Amadeus, dicembre 1990)

A cent’anni dalla nascita riproponiamo una interessante intervista a Franco Zeffirelli.
Dagli allestimenti tutti «musicali» di Toscanini alle false «rivoluzioni visive»
di alcuni registi contemporanei. Trasformazioni, miserie e grandezze
 del teatro lirico nel racconto di uno dei suoi più prestigiosi protagonisti.

Franco Zeffirelli ha passato la scorsa estate nella sua villa di Positano, a prendere respiro dalla fatica del suo «Amleto», il film che sta già suscitando ammirazione tra gli addetti ai lavori in America e in Inghilterra, dove l’opera è stata girata. Mi è sembrata, questa sua breve pausa, l’occasione per rivedere la sua vita di regista soprattutto nel campo dell’opera, dove egli ha saputo agire con competenza, ispirazione e bravura sin dagli inizi della sua carriera recuperando il melodramma dall’usura della routine così da proporlo rinnovato e fresco alle nuove generazioni. Tale infatti mi è sempre parso il suo lavoro nel seguire io. Con impegno anche giornalistico, le stagioni scaligere.
«Io credo che alla base ci sia un grande equivoco, e cioè che la parte visiva dello spettacolo abbia determinato la resurrezione di un genere fornendo un nuovo indirizzo di rilettura di certe opere. Questo mi pare eccessivo e, in un certo senso, ridicolo, perché ci sono sempre stati, nel tempo, grandi artisti e grandi direttori d’orchestra che sapevano il loro mestiere e lo svolgevano con amore e rigore tecnico». E se insisti nel dire che la rivoluzione visiva è stata spinta, sollecitata dal cinema, dalla rappresentazione sempre più perfezionata del cinema, lui non è del tutto d ‘accordo.

Franco Zeffirelli alla Scala durante le prove di I pagliacci.

Il ruolo del regista
«L’opera è diventata uno spettacolo totale, questo sì, mentre prima era uno spettacolo soprattutto musicale. Non dimentichiamo, tuttavia, che le grandi scenografie avevano un grande e superbo ruolo nei teatri d’opera e offrivano una parte visiva ricca e molto importante. Purtroppo noi non possiamo nemmeno immaginarci che cosa fosse l‘Aida del Cairo».
Forse c’erano difficoltà e impedimenti dovuti a cantanti che non erano attori, azzardo io.
«Non so. Tamagno, per esempio, era un grandissimo Otello anche scenicamente. Mi pare che, in questa famosa rivisitazione-rivoluzione del melodramma, l’accento sia stato messo soprattutto sui registi, cioè sulla parte visiva dell’opera. Ma i cantanti e i direttori d’orchestra hanno sempre continuato a fare il loro egregio lavoro, un lavoro di ripulitura, verificatosi nel periodo d’oro della Callas: tanto che, dopo di lei, ogni ciarpame vocalistico è stato bandito, mentre prima si sopportavano anche le approssimazioni. Ci sono state, è vero, alcune determinanti rivoluzioni, rivoluzioni in campo musicale, ma non si può dire che la Tosca di De Sabata fosse inferiore alla Tosca di Sinopoli, che il Wagner di Furtwängler fosse meno incisivo di quello di oggi, a Bayreuth. Io credo – e lo dico contro la mia stessa categoria, e quindi lo dico con stoicismo – nego che i registi abbiano cambiato la faccia al melodramma. Questa credenza è un’illusione dei giornalisti, è un equivoco nato dall’informazione di chi non capisce che cosa sia l’opera e di coloro che credono nell’avvenimento visivo, il quale, alla fine, non c’entra niente con l’opera. L’opera è un’esperienza totale, e insisto totale».
E spiega di non aver visitato l’opera da turista, ma di esserci cresciuto dentro, sin da bambino, da quando andava agli spettacoli d’opera, da quando suo zio, che era baritono, lo portava alle prove.

Una scena di Turandot,

«Ho conosciuto i cantanti dall’età di 7 o 8 anni, ho conosciuto la Muzio e la Ponselle, che quando venne a Firenze a cantare la Norma fu ospite da noi a colazione, perché era amica di mio zio, e mi sembrò, un’americana un po’ grassa e molto simpatica. Guardavo tutti con ammirazione, in particolare Gina Cigna e Iva Pacetti, una pretesa amica di mia zia, che fu una grande Tosca. Io nell’opera ci sono nato dentro, e questo è stato il vantaggio che io ebbi sul mio maestro Visconti, così che venni alla Scala due anni prima di Luchino: nel ’53-54, lui nel ’55-56. Perché era per me come continuare un discorso fissato nel sangue. Ci sono nato dentro, ripeto, con grande amore, nostalgia e conoscenza, e conosco bene che cos’è l’opera. Quindi non me la raccontano i mistificatori. Sì, certe cose possono anche divertire, ma questo è un discorso sul teatro che ha contaminato anche l’opera. Luchino ha fatto regie straordinarie con messe in scena prodigiose, servendosi anche di collaboratori eccezionali. Ha avuto la fortuna di trovarsi con Maria Callas, fortuna che ho avuto anch’io. Abbiamo vissuto un momento di rivisitazione grandissima del melodramma, e ci siamo resi conto che questa «vecchia bestia» era invece uno stupendo cavallo e il risultato magico di una somma di genialità. E così abbiamo ritrovate cose semi-dimenticate. Io stesso affrontai l’Italiana in Algeri che da 21 anni non veniva più rappresentata; la feci con Giulini e la Simionato; poi allestii Cenerentola che fu un grande successo, perché curai contemporaneamente regia, scene e costumi, mai successo alla Scala, se non una sola volta per l’impegno di Cito Filomarino, un personaggio, noto prima ancora di Toscanini, che usava fare grandi messe in scena alla Scala, ma del cui lavoro non vidi mai nulla».

Il protagonista de “I pagliacci“, Juan Pons.

La riscoperta del melodramma
Sarebbe bello poter far scorrere, insieme con Franco Zeffirelli, carta e immagini alla mano, una rapida storia delle scenografie del melodramma, per rivedercele quasi «montate» sulla scena, riconoscerne la magia barocca o classica o romantica. Ma non c’è tempo, Franco è caricato e la polemica lo sprona.
«Adesso tutti vogliono fare regia, scene e costumi; fanno ”Zeffirelli”. Non importa, va benissimo. Ma in quegli Anni ’50, in cui tutti eravamo pieni di energie nuove, vivevamo uno straordinario momento di riscoperta di tante cose, noi ci siamo trovati in groppa a quel meraviglioso cavallo e abbiamo riscoperto i grandi – Rossini, certo Donizetti, e anche certo Verdi – abbiamo restituito luce a quello che era considerato ciarpame, fumisteria, kitch».
E qui afferma una grande verità di quegli anni, del suo lavoro e di altri suoi amici.
«L’opera era stata abbandonata dai giovani, noi abbiamo riportato la gioventù e la cultura all’opera. Siamo stati Luchino e io, perché Zuffi ha fatto qualche pasticcio, Enriquez cose anche dubbie, quando c’erano la Wallmann e Frigerio per lavorare onestamente nella più ossequiosa tradizione; ma erano quelli gli anni in cui l’opera è tornata clamorosamente nella cultura giovane, che l’aveva snobbata come un patrimonio consunto, lasciato neanche dai genitori, ma dai nonni.
In quegli anni tornarono tutti ad applaudire clamorosamente l’opera, rinacquero gli applausi deliranti che duravano un quarto d’ora, tornò Medea, con Bernstein e la Callas – sempre lei, il punto focale di questo rilancio – la Sonnambula con Luchino, il mio Turco in Italia, sempre con la Callas: una donna che sapeva creare un’atmosfera straordinaria anche solo venendo a visitare amiche e amici impegnati in nuovi lavori.
Eravamo molto legati, tutti. Poi ebbi la fortuna di fare la Traviata con lei a Dallas e proprio con lei cominciai ad articolare un certo pensiero critico nei confronti del melo­ dramma, la contaminazione col nuovo linguaggio del cinema, nuove impostazioni registiche, tutto un insieme che ci dava il grande vantaggio – e in questo mi sento in colpa nei confronti dei giovani che rivisitano a pappagallo queste formule – perché noi riscoprivamo un genere vivo e ancora da approfondire».
Prima del loro intervento, c’era la consuetudine di «fare l’opera alla Toscanini». Quando andava bene, si avevano grandi interpretazioni musicali – soprattutto musicali – mentre le scene di Benois e della Wallmann, senza grandi colpi di genio, sapevano, tuttavia, mandare avanti onestamente il discorso.
«Montare uno spettacolo d’opera non è cosa tanto semplice se non hai una adeguata struttura dietro. Devi avere il coro che ti risponde, la parte musicale deve essere assolutamente a posto, perché hai voglia di fare il palcoscenico come pare a te, ma poi ti ritrovi insieme con l’orchestra e, a quel punto, devi levarti il cappello e dire: orchestra, passa prima di me! Purtroppo molti registi vivono nell’illusione che l’opera sia loro. Questa illusione può benissimo reggere per un po’, ma quando arrivi alle prove d’assieme, capisci che tu devi levarti dalle scatole perché la musica diventa regina, prende il sopravvento. Quindi devi predisporre un meccanismo di impostazione registica che tenga conto di quel momento, di quell’appuntamento, perché io ho assistito a certe catastrofi, nel momento dell’insieme, causate da registi che hanno vissuto la loro fantasia in modo completamente avulso dalla realtà dell’opera, che è quella lì, musicale, che impone i tempi, gli attimi.

Il regista prova Cavalleria rusticana.

I giovani che mi seguono restano stupiti, nelle prove d’assieme, nel sentirmi dire al coro e ai cantanti: non preoccupatevi della regia, anzi non seguite la regia, mettetevela mentalmente in testa, per fare poi certe cose, ma adesso dovete occuparvi solamente della musica, perché se noi mettiamo la regia davanti alla musica succede un disastro, e l’opera non sta insieme. Cercate di custodire questa meravigliosa cattedrale di suoni e di dramma musicale che è l’opera e poi recuperiamo tutto il lavoro che abbiamo fatto».
E mi racconta di aver visto giovani inesperti arrivare alla prova d’assieme e fare fuoco e fiamme di rabbia, di urli, perché coristi e cantanti non facevano quello che loro avevano deciso.
«Lasciali fare, gli consiglio, perché in quel momento i cantanti hanno ben altro da fare che prendere il bicchiere in quell’istante piuttosto che in un altro. Sono regie che vengono metabolizzate dalla musica e il cantante nella prova d ‘assieme ha problemi gravissimi.
È qualcosa di prodigioso, di incredibile: quando si mette in movimento la macchina dell’orchestra, tu devi entrarci dentro a tempo e in tono, e poi, contemporaneamente, recitare, ma recitare viene naturale; e quello che mi riconosco come grande merito è che non faccio mai regia che vada contro la musica. Sacrifico anche certe vanità, mentre molti miei colleghi conclamano di fare grandi invenzioni. Ma se le invenzioni registiche sono in conflitto con la musica, per me non sono accettabili. Queste idee mi vengono, nuove, sorprendenti, clamorose, diverse, che poi, fatti i conti con la musica, non si possono realizzare. E, quindi, il mio discorso è quello di illustrare amorevolmente la musica, perché sono convinto che l ‘opera sia soprattutto musica, dramma in musica. E poi c’è tutto il resto».
Si parla poi di come Puccini, Verdi e altri pretendevano che il dramma fosse convincente, appassionante e lo si pretende ancora da cento professori d ‘orchestra, dai cento coristi e da quel cantante che deve entrare a tempo, magari in una situazione scenica scabrosa.
«E così si leva questa straordinaria cattedrale di suoni che si può sempre risentire e ogni volta ti incanta, una celebrazione, artistica e spirituale, straordinaria dovuta alla comunione di tutti, uniti per celebrare questo miracolo di suoni, di invenzioni, di armonia, di affetti, di dolori… E tutto proviene da un lavoro enorme, dal librettista al compositore, capace, quest’ultimo, di mettere insieme, in due settimane, capolavori come l‘Elisir d ‘amore, il Barbiere di Siviglia, miracoli avvenuti sull’onda di una professione incredibile».

Nicola Martinucci e Ghena Dimitrova nel secondo atto di Turandot, che ha inaugurato la stagione della Scala nel 1983 con la direzione di Lorin Maazel

Il miracolo di «Turandot»
Zeffirelli confessa di aver lavorato con i compositori solamente nel cinema, per le colonne sonore, di aver visto Nino Rota montare in pochi minuti una scena avendo davanti l’orchestra e, in breve, riguardare le note e creare momenti musicali di eccezionale bellezza una regola che si ritrova anche nei grandi compositori che alle prove sapevano cambiare lì per lì molte cose che risultavano ancora non funzionanti.
«Il miracolo della Turandot è che ciò che abbiamo di fronte, sulla partitura, è venuto fuori senza prove ed è tale e quale a come se lo è immaginato Puccini a Torre del Lago, mentre altre sue opere se le è riguardate e lavorate durante le prove. Tosca è tra le più ritoccate. Tra la partitura originale e quella definitiva ci sono cento cambiamenti, situazioni di fondo addirittura modificate, conseguenza del suo grande talento di uomo di teatro. Ma di Turandot aveva previsto tutto, con incredibile chiarezza, senza il beneficio della verifica».
Un lavoro profondo, faticoso, totale.
«La cosa che non perdono a nessuno è di vergognarsi dell’opera. Tutti i travisamenti che compiono i registi sono provocati dalla non conoscenza dell’opera, della quale si vergognano. L’opera, così com’è, per essi è una cosa di cui bisogna vergognarsi: come avere una madre buona donna. Pensano: adesso cerchiamo di camuffare e di truccare questa vecchia ridicola, in modo che sembri più giovane. Io, questo comportamento lo trovo osceno e vergognoso, e trovo osceno che si consenta di vergognarsi a questi turisti improvvisati che vengono a visitare l’opera, perché altrimenti non si spiega come essi possano violentare le opere così impunemente, mentre il pubblico, che crede di essere acculturato, le accetta, appunto, proprio perché sono travisate e falsate; un pubblico che, se gli dai un’opera secondo le direttive degli autori si annoia. Vogliono vedere lo stravolgimento, Mimì malata di Aids. E dicono: “Com’è interessante. È diversa dal solito”. Ma non è più quell’opera. E Don Giovanni finisce per uscire dalla camera di Donna Anna con le mutande in mano. Ma la gente, quando vede Don Giovanni con le mutande in mano dice: “Vedi, è giusto, dato che cercava di possederla”. E tutto ciò è causato dal fatto che ci si vergogna dell’opera e perché il mondo dell’opera consente di procurarsi certi successi critici e di accattivarsi il pubblico disorientandolo, stuzzicandolo».
Per fortuna c’è da dire che l’opera sopravviverà comunque. I grandi musicisti e i grandi cantanti necessariamente la difendono dall’alto della loro cultura e della loro professionalità. Shakespeare, nonostante tutto quello che si è fatto e tentato sui suoi drammi, resta tuttora vivo, meravigliosamente vivo. Ma tutto torna a disdoro di una generazione cosiddetta acculturata che non ha capito come queste divagazioni cultoraloidi altro non sono che la negazione dell’opera stessa, la quale va vissuta dello spirito merita. E Zeffirelli sottolinea: «Non c’è nessuno spettacolo sportivo o d’altro genere che sia così pieno, ricco e clamoroso come l’opera, dove c’è il più gran suono che si possa immaginare: cento professori d’orchestra, cento coristi, grandi voci, le grandi partiture, grandi coreografie, le grandi scenografie. Non c’è avvenimento totale sublime come l’opera! Perché dobbiamo vergognarci di questa creatura eccezionale? Bisogna farla come dev’essere fatta e non prenderla a pretesto: scusate, faccio l’opera, ma vi faccio un’altra cosetta, anzi vi faccio dimenticare che si tratta proprio di un’opera. E questo l’atteggiamento che mi offende di più.
Quei critici che perseguono una scervellata rilettura delle opere e avallano gente che dell’opera non sa nulla: i Carmelo Bene, quel musicista che fece l’incredibile
Turandot a Torre del Lago. Così che se cerchi di essere fedele ai testi ti trovi tutti contro. Però io non faccio una restituzione piatta dell’opera, cerco la verità che voleva l’autore, portando avanti il suo discorso come se l’autore oggi fosse vivo e io a sua disposizione. Faccio il Falstaff come Verdi lo immaginerebbe oggi, coi nostri mezzi tecnici, e così la Bohème. È questo il discorso che mi appassiona. È come scrivere un libro di una persona che non c’è più e non ti può rispondere. Non puoi inventare nulla e non puoi dire bugie. Devi far parlare questa persona per quello che era veramente, perché tu sei responsabile di riportare in vita, sia pur brevemente, quelli che non ci sono più. È una grande e grave responsabilità, un gesto che rasenta qualcosa di sacro. Non posso immaginare Puccini di fronte a quel il pirata che ha fatto la Turandot di cui si diceva, alla Bohème di Macerata, con l’Aids al posto della tisi. Ma chi ve lo ha detto? L’opera è nata in quel tempo in cui la tisi era un male oscuro, altamente stimolante spiritualmente, mentre l’Aids è una disperazione diabolica, senza poesia e senza riscatto. L ‘Aids è radicato nel carnevale dei sessi mentre la tisi l’aveva anche la figlia del re. Facciamo allora il cancro? No, il cancro è brutto. Fac­ciamo una negra malata di Aids come nell’orrendo film di Comencini?»
E parla del rispetto verso l’opera, verso i cantanti che sentono ciò che è giusto e ingiusto e possono anche ribellarsi. E se i cantanti si ribellano al regista o al direttore d’orchestra, è finita.
«Ho assistito a conflitti tra cantanti e direttori d’orchestra per tempi ritenuti inesatti, sia che fossero troppo lenti o troppo stretti, e ho sentito; cantanti, come la Gruberova, lamentarsi d’una regia sbagliata. tuttavia, accettarla, perché era suo dovere cantare e obbedire».
Un mondo meraviglioso e complesso, ma davvero unico, e al qual Zeffirelli si compiace di mostrar tutta la sua deferenza e il suo amore, perché l’opera possa sempre trionfare, possa eternamente esser la grande cattedrale di suoni creata da noi ricevuta in dono dai più grandi geni del mondo musicale.