di Nigel Jamieson

(Pubblicato sul n. 8 di Amadeus, luglio 1990)

Muti parla dell’interpretazione delle opere più popolari di Verdi.
Dopo il trionfo de «La Traviata» alla Scala il direttore italiano
spiega quali sono le maggiori difficoltà interpretative che si incontrano
al momento di dirigere un’opera circondata da una notorietà nazionale.

Chi esegue la musica di Verdi in Italia deve affrontare una difficoltà in più rispetto a quando interpreta le opere di altri compositori: gli italiani conoscono certi brani popolari tanto bene che non li sentono più come li concepiva lo stesso Verdi, perché hanno preso l’abitudine di usarli per esprimere se stessi.

Giuseppe Verdi con Francesco Tamagno, il grande interprete leggendario protagonista di Otello.

Questo è quello che crede Riccardo Muti che ci riferisce un esempio notevole tratto dal Nabucco: «È possibile cantare Va’ pensiero alla maniera di contadini che tornano dai campi con canestri pieni di mele, ma non è il coro che Verdi ha scritto. L’abitudine di eseguirlo così ha creato una percezione sbagliata della musica: chi potrebbe desiderare come inno nazionale un lamento sommesso di un popolo soggiogato per una lontana, forse perduta, patria?».
La scelta di Muti di inaugurare il suo incarico di direttore musicale della Scala con Nabucco, col senno di poi, sembra essere stata guidata dall’intenzione di farci riascoltare le pagine verdiane più famose il cui effetto drammatico è stato smussato dall’eccessiva familiarità. La sua recente incisione di Rigoletto con l’orchestra e il coro della Scala, per esempio, è particolarmente severa: Muti spinge la storia verso l’ineluttabile tragedia e toglie tutti gli acuti che molti cantanti tradizionalmente aggiungono. Ascoltando Sì, vendetta o l’attacco di Cortigiani si percepisce una forza terrificante, restituita ad un’opera che spesso è stata ridotta a veicolo per vuoti virtuosismi canori. Alcuni si lamentano che, in quest’edizione, l’opera amata non è più godibile, non è più divertente, ma solo l’idea di un Rigoletto d’intrattenimento sarebbe bastata per far esplodere lo stesso compositore in qualche maledizione.
Affrontando La Traviata alla Scala – era la prima volta che il Maestro la dirigeva in teatro – Muti ha dichiarato di considerarla, come l’opera di Verdi forse più difficile da eseguire, in parte a causa della immensa popolarità. «Certi appuntamenti sono talmente travolgenti che sono diventati parte dell’anima di ogni italiano anche di quelli che non vanno mai a teatro e perciò ognuno di noi costruisce l’opera dentro di sé, con una propria idea di come si deve eseguirla». Questo è l’aspetto più profondo di quella familiarità che fa perdere l’originaria percezione, e che si è fatta sentire alla prima prova orchestrale: l’orchestra ha attaccato forte il brindisi del primo atto, quel brano che tutti gli orchestrali conoscono tanto bene che non hanno nemmeno bisogno di guardare la partitura, dove invece c’è scritto piano.

Un’opera molto faticosa
Un altro aspetto che Muti ritiene molto difficile da affrontare è l’apparente semplicità della scrittura strumentale: «L’orchestrazione è quasi scheletrica, ma dietro ogni nota e ogni colorito c’è un mondo di espressività che il direttore d’orchestra deve scoprire. La Traviata è un’opera molto faticosa da dirigere. L’inizio è di una difficoltà incredibile: il suono che Toscanini ha creato nelle prime quattro battute è impareggiabile, era proprio il suono della morte.
Ma La Traviata è soprattutto un’opera di puro canto, il canto che diventa forma di espressione totale e viscerale. Ha le radici musicali nel periodo di Bellini e Donizetti, mentre il suo dramma si realizza in termini che sono lontani dal bel­canto del primo Ottocento. Il problema è di trovare il giusto punto di equilibrio».

Tiziana Fabbricini (Violetta) e Paolo Coni (Giorgio Germont) giovani e brillanti interpreti della Traviata scaligera.

Il compito più arduo era sicuramente quello di trovare una buona Violetta: «Come si fa a trovare un soprano capace? Ci vorrebbero in realtà tre soprani per affrontare la scrittura vocale dei tre atti, ma tre soprani non bastano per Violetta: ci vorrebbero anche tre donne diverse, tanto vertiginoso è il percorso emotivo e umano tracciato dalla partitura». Pur ammettendo le grandi difficoltà, Muti si arrabbia davanti a chi vuole paragonare ogni esecuzione di oggi con le più grandi esecuzioni del passato, decretando un insuccesso per qualsiasi Violetta che non sia all’altezza della Callas.
«Sarebbe come dire che siccome alla Scala c’è stato Toscanini, allora io avrei dovuto accontentarmi dell’orchestra di Cerignola. I fantasmi del passato fanno paura anche a me, ma dobbiamo andare avanti.
Sentivo il bisogno di abolire il controsenso che La Traviata fosse un’opera sconosciuta alla Scala, e ho pensato di usare una compagnia di giovani cantanti con cui potevo lavorare a lungo. Non avevano sulle spalle una prassi esecutiva di decenni, e quindi era un discorso che nasceva praticamente da zero. In questo senso pur nell’inesperienza di questi ragazzi c’è qualche cosa di fresco che trovo stimolante» …e certamente anche malleabile: quando alla conferenza stampa si discuteva con Muti della possibilità di aprire la prova generale, un giornalista ha commentato che l’impatto col pubblico avrebbe potuto essere di aiuto ai giovani cantanti. «Anche con l’impatto con la mia faccia non c’è mica da scherzare!» ha risposto con un sorriso scaltro.
Secondo Muti le difficoltà di questa partitura non si esauriscono mai: «I tempi sono tutti alquanto spediti, c’è sempre il senso di andare, di andare appunto verso la morte. Trovare il tempo giusto per Parigi, o cara, per esempio, non è semplice. Deve scorrere con speranza e urgenza senza diventare veloce. La tradizione di eseguire quest’opera molto lentamente mi l ‘impressione che Violetta possa morire prima della fine del duetto».
Un’altra tradizione che Muti vuole combattere è quella dei tagli. «Le cabalette del tenore e del baritono – soprattutto quella del baritono – non sono fra le cose migliori che Verdi abbia scritto, ma non si può tagliare una cabaletta dopo un’aria solo perché è brutta: la forma aria-cabaletta fa parte del mondo stilistico a cui La Traviata appartiene, e quindi l’opera va eseguita nella sua interezza. Il secondo atto costituisce un arco drammatico molto forte – io penso al primo e al terzo atto come preludio ed epilogo del dramma – a cui anche le ripetizioni contribuiscono: i tagli indeboliscono l’arco.»
E mentre Muti ricuce i tagli, taglia gli acuti che non sono nella partitura, tranne sol uno: lo stupendo, drammaticamente perfetto, mi bemolle con cui Tiziana Fabbricini ha incoronato il primo atto.
Dopo la prima, il Maestro ha lasciato il trionfalismo ai cronisti. «Abbiamo lavorato molto, e credo che sia un risultato onesto».