di Carlo Delfrati

Amadeus n. 5 aprile 1990: ha inizio la pubblicazione della rubrica “Le Parole della musica” a cura di Carlo Delfrati, uno dei maggiori esperti in didattica musicale e autore di diffusissimi corsi per le scuole medie.
Con questa rubrica si è cercato di chiarire il significato di alcuni dei più frequenti (ma anche dei più insoliti) termini usati dagli addetti ai lavori.
La rubrica Parole della musica si protrae fino al n. 73 del dicembre 1995 e viene sostituita dalla rubrica Scuola cui farà seguito il supplemento ScuolAmadeus.

Nella selezione dei suoni da usare, la musica funziona un po’ come il linguaggio verbale. La voce umana è in grado di produrre un numero pressoché illimitato di suoni diversi. Però ogni cultura – ogni lingua – ne seleziona un certo numero, una trentina, come suoni «pertinenti», e resta indifferente agli altri, che considera come sfumature «imperfette» di quelli riconosciuti. Tra la vocale «o» e la vocale «a» noi di fatto possiamo produrre una quantità di suoni intermedi. Però non li pensiamo e non li usiamo come vocali «diverse», «pertinenti»: se sentiamo una persona pronunciare «case» con la «a» che sembra quasi una «o», le chiederemo, in caso di dubbio, di essere meno ambiguo, di chiarirci se ha detto «case» oppure «cose»; una terza parola dal suono intermedio non esiste. In italiano, un suono intermedio tra «a» e «o» è necessariamente ricondotto a uno di questi due. Altre lingue invece possono conoscere altre vocali, intermedie tra «a» e «o»; e magari non riconoscono differenze essenziali in italiano, come quella tra «i» e «r».
Anche la gamma dei suoni utilizzabili in musica (più esattamente: delle frequenze udibili) è illimitata, fra il rombo più cavernoso che il nostro orecchio può sentire e il sibilo più stridente. Un orecchio medio è in grado di percepire differenze anche minime di altezza, dell’ordine di 1/17 di tono. Però non tutti i suoni di diversa altezza sono sentiti, in musica, come suoni «pertinenti», come note diverse. Tra il si e il do di una tastiera non ci sono tasti intermedi: ma un apparecchio elettronico (o più semplicemente un buon accordatore) ce ne può far sentire parecchi. Che fine hanno fatto questi altri suoni sullo strumento? Sono stati ignorati, proprio come in quella tastiera del linguaggio che è l’alfabeto sono ignorati i suoni intermedi tra «a» e «o». E se sentiamo un cantante produrre un suono incerto tra si e do, sentenziamo: «è un do calante», oppure «un si crescente»; e lo invitiamo ad essere meno ambiguo nell’intonare.
L’alfabeto ci fornisce la scala dei suoni verbali. La tastiera di un pianoforte ci fornisce quella dei suoni musicali usati nella tradizione europea: le note, ordinate dalla più bassa (a sinistra nella tastiera) alla più alta (a destra). Una grande caratteristica distingue la scala musicale da quella alfabetica. Ed è quella che i teorici chiamano «l’identità logica dei suoni all’ottava». Quando un suono ha una frequenza doppia di un altro, lo percepiamo «identico» a quest’altro; solo ci appare «spostato» su un piano più alto: è quel che sperimentiamo comunemente quando un uomo e un bambino cantano la stessa melodia.
Una scala allora non è che l’insieme dei suoni pertinenti (l’insieme delle note) compresi tra un suono e quello che ha una frequenza doppia della sua. Nella tradizione europea, questi suoni sono dodici: raffigurati dai dodici tasti di una tastiera, sette bianchi e cinque neri. E la scala temperata, introdotta stabilmente con la musica del XVIII secolo. Quando percorrendo a uno a uno i tasti bianchi e neri di una tastiera si giunge al tredicesimo tasto, sentiamo che il suono prodotto è simile a quello del primo, è logicamente identico.
La successione di tutti i dodici suoni prende il nome di scala cromatica; la successione dei suoni prodotti dai soli tasti bianchi si chiama scala diatonica. La scala diatonica è la più frequentemente usata nella nostra musica tradizionale.
La distanza minima perché nella nostra musica due suoni di altezza diversa siano riconosciuti come «pertinenti», ossia come note della scala, è di un semitono: è infatti la distanza che si coglie fra due tasti vicini. Altre culture invece conoscono distanze minori: è quello che succedeva nell’antica Grecia, con il genere enarmonico: una scala che viveva, come pertinenti, suoni di distanza minima (di un quarto di tono): una distanza che suscitava negli ascoltatori un senso di sottigliezza sensoriale ed emozionale non sempre accettata dagli educatori. Platone e Aristotele hanno parole dure verso questo genere morboso di musiche.
Oggi il nostro orecchio fa fatica ad apprezzare queste minime differenze: così può succedere che quando un cantante o uno strumentista di musica esotica (o anche solo folklorica) usa scale diverse dalla nostra, scale che usano intervalli inferiori al semitono, lo censuriamo come stonato. Proprio come l’interlocutore sprovveduto sorride ai suoni «stonati» di una lingua esotica.
Una scala in fin dei conti non è che un modo di dare ordine e valore all’esperienza: nei suoni della musica o del linguaggio, come in tutte le manifestazioni della cultura. È nelle sue scale che ogni cultura manifesta la propria identità.

(Amadeus n. 9, agosto 1990)