Per ricordare l’autorevole musicologo e critico appena scomparso,
pubblichiamo la versione integrale del contributo per la guida
“I Luoghi della Musica” realizzata da Amadeus per il Touring Club Italiano.
Umbria Jazz è uno dei maggiori festival musicali del mondo, senza distinzioni di generi. Ma bisogna averla frequentata assiduamente, estate dopo estate (e perfino inverno dopo inverno, perché dal 1993 c’è anche un’edizione «winter» a Orvieto) per sapere quanto sia cambiata in trent’anni, soprattutto dai primi dieci ai secondi venti. E quanto sia stata e sia tuttora legata alle vicende sociopolitiche e di costume del nostro Paese.
Cerchiamo di ricordare e di riassumere. Nella tarda primavera del 1973 i giornalisti specializzati nel jazz vengono avvisati che in piena estate avrà luogo la prima edizione di Umbria Jazz: un festival di tipo nuovo, imperniato su Perugia ma itinerante fra le principali città della regione; ai concerti si accederà liberamente, non è previsto il pagamento di alcun biglietto. Quest’ultimo è il punto che fa corrugare la fronte a più di qualcuno. Con ogni evidenza, il festival è anche uno dei mezzi promozionali per rammentare al resto della Penisola che «l’Italia ha un cuore verde», cioè l’Umbria, e l’importante è chiamare gente. D’altra parte, la moda del momento richiede che la musica sia un servizio pubblico. Soltanto pochi osano obbiettare che con la gratuità la musica e gli artisti non sono protetti; e che ai concerti verrà anche chi non abbia nient’altro da fare, o sia motivato da intenzioni non pacifiche, dato il contesto generale – sociologico e politico, appunto – che tende a peggiorare.
La prima edizione fila liscia. Il programma, non imponente, è buono: primeggiano i rampanti Weather Report, il pianista Mal Waldron, l’“Arkestra” di Sun Ra, la grande orchestra di Thad Jones e Mel Lewis, il quartetto di Giorgio Gaslini, il Perigeo oggi un po’ dimenticato, che in realtà fu il migliore gruppo italiano di jazz-rock, e il più popolare. L’ultima sera, nella storica piazza IV Novembre di Perugia, contando pure le persone che vanno e vengono come di consueto per il vicino corso Vannucci, si arriva forse a sfiorare le diecimila presenze. Sono soprattutto giovani e giovanissimi, incuriositi più che partecipi, che ascoltano (o badano ai fatti propri) seduti o sdraiati per terra fin dal tardo pomeriggio. I negozianti guardano di traverso le facce non sempre angeliche, gli atteggiamenti svaccati, gli abbigliamenti «casual», per usare un eufemismo. Dicono senza complimenti che quei visitatori sono straccioni, o addirittura «pulciosi», secondo un’acre espressione locale.
Ma il vero decollo di Umbria Jazz, sotto il profilo della partecipazione numerica (non certo qualitativa) del pubblico, avviene nel 1974, e ha in principio una notevole componente casuale. Da questo momento i giovani che calano in Umbria da ogni parte d’Italia si contano a diecine di migliaia, e creano perciò enormi problemi logistici e altri peggiori, fino alla sospensione del festival per dilatazione eccessiva dopo l’edizione del 1978. Nell’estate del 1974 succede che, pochi giorni prima dell’inizio di Umbria Jazz, è fissato un imponente raduno rock a Misano Adriatico, a cento chilometri in linea d’aria da Perugia. L’adunata oceanica viene cancellata per preoccupazioni della polizia circa l’ordine pubblico e la tranquillità dei bagnanti. Perciò intere legioni di ragazzi, già in viaggio per Misano, trasferiscono i loro sacchi a pelo in Umbria, trascinandosi al seguito orde di venditori di cianfrusaglie, ninnoli e simboli alternativi di ogni specie, pipe e «cannoni» per aspirare marjuana. È un momento in cui la musica rock sta dando i primi segni di crisi e di commercializzazione, grazie alle cure amorose delle multinazionali del disco. E così a molti capita di scoprire che il jazz è molto più improvvisato del rock, che a volte è perfino comunicativo, e provvisto dell’«indispensabile» messaggio sociale.
Fino al 1978 i tratti caratteristici di Umbria Jazz rimangono questi. L’unica variazione sul tema è il loro complicarsi, il loro ingigantirsi fino alla morte e resurrezione del festival. Sarebbe inutile ricordare quegli anni, perché appartengono al passato, con nostalgia o peggio come una sorta di età dell’oro. Non è affatto così. Non va dimenticato per esempio, che Carla Bley, nel 1992, non voleva ritornare a Umbria Jazz per l’impressione negativa che ne aveva riportato nel 1978. Quando si ritrovò nella chiesa di san Francesco al Prato, di fronte al nuovo pubblico degli anni Novanta, credette di sognare.
Negli anni Settanta, nondimeno, la musica era eccellente; e chi sceglieva Perugia sapeva scegliere, allora come oggi, anche se indulgeva un po’ ai propri gusti. Erano ancora vivi e operanti Charles Mingus, Bill Evans, Chet Baker e Count Basie; McCoy Tyner e Archie Shepp non si erano ancora adagiati sulla routine e sul manierismo; Cecil Taylor e Anthony Braxton erano considerati depositari del «messaggio» sociopolitico, per non parlare di Sam Rivers che ci marciava a tutto vapore, e si poteva permettere di bistrattare un sommo sassofonista come Stan Getz (1976) perché era bianco anziché nero e il messaggio non ce l’aveva, ma badava soltanto a suonare bene.
Si può nutrire nostalgia per Charles Mingus e per Bill Evans, ma non per quegli anni, tutto sommato poco «formidabili»; non per quel contesto e per quel pubblico. Ci volle poco a constatare che a breve distanza dal palcoscenico nessuno ascoltava più nulla. Questo tipo di atteggiamento venne perfino giustificato e teorizzato, dissertando della legittimità dell’«ascolto nella distrazione» e della «continua entrata e uscita dall’evento». La testimonianza in proposito del sassofonista Claudio Fasoli, che queste cose le vide dalla ribalta, è la seguente: «I quarantamila di Umbria Jazz erano simili ad altrettanti giovani campeggiatori che si ritrovassero in un punto d’incontro. A cento metri dallo stage all’aperto, già cominciavano i gruppi di ragazzi che si facevano lo spinello suonando la chitarra per conto proprio e disinteressandosi del concerto». Era importante unicamente esserci, ritrovarsi, stare insieme, sentirsi diversi e quindi rassicurarsi. Ed essere protagonisti anche a costo di sostituirsi all’evento, e quindi di distruggerlo.
Ci sono altre prove. A questo aumento così cospicuo di «popolarità» del jazz fece riscontro un aumento assai modesto delle vendite dei dischi. Le case discografiche si precipitarono a stampare le opere e i giorni degli artisti «che portavano avanti un certo tipo di discorso» (oppure, a piacere: «un discorso di un certo tipo»), ma molti long playing rimasero invenduti negli scaffali. Significa che quell’ascolto dal vivo non invogliava all’approfondimento. Oppure, quando ciò avveniva il soggetto vi era predisposto per conto proprio e partecipava ai concerti in tutt’altro modo: questo senza voler negare che qualcosa sia rimasto attaccato anche alla sensibilità musicale, ahimè quanto nascosta, di qualcuno degli altri.
Di questa realtà, tutti i giornalisti – chi più e chi meno – sono stati complici in nome di chissà quale speranza di palingenesi sociale, o semplicemente per lassismo o per oscuri timori. Quel pubblico talvolta faceva davvero paura. E chi c’era, ancora si chiede per quale fortuna o coincidenza non ci sia scappato il morto. Non stiamo scherzando. I negozianti di Perugia e degli altri centri allora toccati dal festival non hanno di certo dimenticato le «spese politiche» e le autoriduzioni, vere e proprie rapine legalizzate o tollerate. Molti presero l’abitudine di chiudere per ferie in coincidenza con Umbria Jazz. E crediamo che numerosi spettatori di allora ricordino il pianto di Sarah Vaughan, contestata perché troppo elegante e quindi borghese, cioè appartenente caso mai (lo sappiamo bene) alla stessa categoria di chi le lanciava queste accuse (1976). O ancora, il gruppo di Charles Mingus bloccato lungo la salita che porta a Villalago di Piediluco, presso Terni, intasata di macchine e di pedoni (1975). O peggio, Shelly Manne e i suoi musicisti impossibilitati a raggiungere il palcoscenico da migliaia di corpi distesi, che nemmeno sognavano di spostarsi per lasciarli passare (1978). È questo il protagonismo che porta alla sostituzione di sé all’evento, e quindi alla sua distruzione, accolta di solito con significante gioia.
Il compianto Pier Vittorio Tondelli, nel suo primo romanzo-ritratto generazionale Altri libertini (1980), scritto in un linguaggio non propriamente stilnovista, pensava a Umbria Jazz prima maniera quando affermava che l’esperienza giovanile postsessantottesca era diventata «quella della pratica diffusa, tutti a produrre cultura in forme scassate, ballo, mimo, radio libere, animazione». Era il momento «del siamo tutti scrittori e musicisti, di quello svaccamento per cui c’era sempre il pirla che veniva su a dire le sue cazzate». Dove «su» sta per tribuna, palcoscenico: e a noi, fra i mille episodi di quello stampo, fa venire in mente soprattutto il ridicolo appello a un «compagno poliziotto» lanciato da un microfono di piazza, ci sembra quello di Todi, da un personaggio piuttosto noto.
La sospensione del festival così com’era, ormai letteralmente preda di quel pubblico, era urgente e indifferibile, proprio perché la rassegna potesse rinascere a nuova vita. Basti leggere l’inizio di una recensione del 1978 che sembra quasi un’invettiva: «Se avete vent’anni, se vi diverte dormire in una tenda o infilati in un sacco a pelo, non importa dove; se vi piace fare toilette seduti su una panchina in un giardino pubblico; e soprattutto se non vi importa un bel niente del jazz, andate a Umbria Jazz nei prossimi anni, ammesso che la manifestazione venga ripetuta, cosa di cui è lecito dubitare». Il provvedimento di sospensione fu reso noto quasi subito.
Sappiamo tutti quanto sia cambiato in seguito, e quanto rapidamente, la situazione generale, fino a passare il segno in senso opposto, come spesso succede («dopo il gelo degli anni di piombo, ci siamo goduti il calduccio di questi anni di m….», ha potuto dire qualcuno degli anni Ottanta). La grande kermesse del cuore verde ha ripreso a funzionare su tutt’altre basi nel 1982. Ma giusto nel triennio del suo silenzio, si verificava una specie di clic, di switch-off, quasi si spegnesse un interruttore. Si prosciugava l’acqua in cui nuotavano quei pesci, cambiava una popolazione universitaria; e tanti pseudo-contestatori, pseudo-proletari, pauperisti da operetta, pervenivano all’età in cui bisogna pur mettersi a lavorare. I cinquantenni (o pressappoco) osservavano sbalorditi, incapaci di capire, i loro figli che passavano dalle riunioni politiche alle anticamere degli stilisti di moda, dalle scritte murali per Mao a quelle per il Milan, dagli stracci agli abiti firmati, dalla scomodità istituzionalizzata al rampantismo, dal rock alla discomusic (e qualche volta invece, attraverso percorsi misteriosi, alla cultura e alla musica d’ascolto della quale, piaccia o no, fa parte anche il jazz).
La nuova Umbria Jazz, pensata e progettata a lungo, si addentra con circospezione nella mutata realtà. Ecco come, all’indomani dell’edizione 1982, ne scrisse Pino Candini: «Un festival a misura d’uomo. Questa è l’insegna sotto cui è nato il nuovo corso di Umbria Jazz. Chi l’ha seguita negli anni duri della contestazione e della stupidità sa che cosa intendiamo dire. Lasciati alle spalle i megaconcerti e le aggregazioni calamitose, la manifestazione si è attestata a Perugia, sventagliando nella molteplicità dei luoghi scenici – naturali e non – della splendida città, un continuum di eventi lungo tutto l’arco della giornata, consentendo così di vivere le musica non in termini esclusivamente consumistici, e certamente senza accenti nevrotici».
Il ritiro dentro le mura cittadine, sempre più accentuato negli ultimi anni, semplifica la rassegna e le giova. L’ingresso ai concerti serali, e in generale a quelli che non si svolgono nelle strade e nelle piazze di passeggio pedonale, si paga. C’è un periodo di transizione nel quale si scontano i guai del passato (e i timori di una popolazione ancora memore e ostile) con la ghettizzazione in un teatro-tenda periferico; e non mancano residue tentazioni gigantistiche che si esprimono in vari concerti allo stadio Curi. Ma i tempi sono senz’altro mutati: nessuno tenta più sfondamenti e autoriduzioni, i «pulciosi» diminuiscono di anno in anno; i giovani del decennio «calduccio» pagano il biglietto perché gli interessa ciò che avviene al di là delle transenne, e cercano di ascoltare e di capire.
La pubblicità di Umbria Jazz 83 è significativa. «Dopo il successo ottenuto nel 1982 il festival mantiene la stessa formula»: i corsi di jazz per i musicisti, le proiezioni di film rari, i concerti del primo e del tardo pomeriggio, i concerti serali, i concerti notturni. Questi ultimi sono la grande scoperta: chi voglia ascoltare bene, a contatto di gomito con gli artisti come nei più famosi jazz club americani ed europei, ruba volentieri le ore al sonno. E nasce un mito, quello della chiesa sconsacrata e semidiroccata di san Francesco al Prato che ha per abside le stelle. Portò fortuna e successo a chi ci suonò dopo la mezzanotte fino al terremoto del 1997 che le diede il colpo di grazia rendendola inagibile, ma sollecitò la direzione di Umbria Jazz alla scoperta o alla riproposizione di altri pregevoli luoghi.
C’è un concerto meraviglioso che tutti ricordano più intensamente di ogni altro, perché ha segnato una specie di sintesi fra la vecchia e la nuova Umbria Jazz, e nello stesso tempo un vertice spettacolare oltre il quale, dopo qualche tentativo di remake, si è capito che non si può andare, anche perché il jazz attuale non lo consente più. È «la notte dei miracoli», l’11 luglio 1987, cioè l’incontro fra l’orchestra dell’indimenticabile Gil Evans e Sting, il cantante-rockstar del momento con pedigrée e velleità jazzistiche, davanti a quarantamila spettatori tutti insieme, tutti attenti sino all’ultima fila. C’era un clima magico, quella sera a Perugia: il clima dell’avvenimento importante e giusto, perché il jazz era ed è alla ricerca, per avere un futuro, di aperture, di sintesi e di contaminazioni. E quell’incontro fra grandi musicisti – a parte l’interesse del richiamo di massa – era una realizzazione di rilievo in queste direzioni. Molti jazzofili cipigliosi hanno confessato di aver fatto, a un certo punto, il tifo per Sting. È stato quando il superdivo si è avventurato nella temeraria interpretazione creativa di un brano come Strange Fruit, che poteva evocare tremendi confronti con la voce magica di Billie Holiday, e ce l’ha fatta. Per fortuna quelle due ore memorabili sono rimaste documentate in un box di tre dischi che sono fra i più belli degli ultimi vent’anni.
In seguito Umbria Jazz si è ulteriormente rapportata alla misura del jazz di fine millennio e del Duemila, che è notoriamente in crisi come tutta la musica contemporanea di qualità, e a quella del suo pubblico. Un pubblico che sempre di più (salvo gli episodi di fusion e simili) rassomiglia a quello dei concerti classici, senza peraltro averne l’infondata supponenza e gli atteggiamenti mummificati. Bandito lo stadio di Perugia, gli spazi deputati sono i teatri, i jazz club, le piazze storiche e le chiese. Certo, fra i concerti riusciti non mancano quelli sbagliati, ma ciò rientra nelle regole del gioco e serve di monito. D’altro canto, sempre più fitti sono gli episodi eccellenti e incancellabili, fra i quali si devono citare l’ultimo concerto perugino di Miles Davis, quello di Carmen McRae e le notti delle orchestre di Gil Evans, di George Russell, di Carla Bley e del quartetto d’archi Kronos a San Francesco. Più significativo degli altri è il successo di Kronos, perché si tratta di un gruppo con un repertorio trasversale e non facile, che è stato seguito con attenzione e molto applaudito: il pubblico degli anni Settanta lo avrebbe contestato senza esitare. E ancora, non si scordino la scoperta emozionante di un pianista straordinario come Brad Mehldau (1997), e i ritorni nel nuovo millennio di Keith Jarrett, Ornette Coleman e Sonny Rollins.
Franco Fayenz