Si conclude con con questa quarta puntata, dedicata al Novecento, la Breve Storia dell’Opera scritta per Amadeus da Andrew Porter. È iniziata con l’Euridice di Jacopo Peri (siamo nel 1600) e si conclude con Licht di Karleinz Stockhausen dove, sarà un caso, ritorna il mito immortale di Orfeo, quasi a completare il grande ciclo del melodramma: patrimonio dell’umanità. Solo che Porter argutamente fa notare che alla seconda replica del Montag (parte del Licht sopra citato) alla Scala «gli interpreti erano più numerosi degli spettatori».
A chiusura dell’articolo alleghiamo una piccola biografia di Andrew Porter e l’articolo scritto da Nicoletta Lucatelli (per molti anni redatrice della rivista Amadeus) in ricordo dello studioso britannico, dopo la sua morte.
Breve storia dell’opera: 4 – Il Novecento
di Andrew Porter
(Pubblicato sul n. 10 di Amadeus, settembre 1990)
Il gran teatro della storia
Il legame tra il XIX e il XX secolo è costituito da Puccini che, reduce dai trionfi de La Bohème, compone – da Tosca (1900) a Turandot (1925) opere che ancora grandeggiano nel repertorio del teatro moderno. La Salomé di Richard Strauss apparve nel 1905, Der Rosenkavalier (Il cavaliere della rosa) nel 1911 e Capriccio, l’ultima opera del compositore tedesco, nel 1942. Il Pelléas di Debussy era apparso nel 1902.
Nel 1925 si rappresentò per la prima volta Wozzeck di Berg. Non vi è una divisione netta tra i due secoli; i dettagli cambiano ma le linee generali del quadro rimangono: un repertorio teatrale essenziale costituito da alcuni lavori del passato molto amati e la proposta di una valanga di nuove opere di cui alcune fanno fiasco, altre hanno vita breve, poche entrano stabilmente nel repertorio. Tra i lavori recenti che sembrano esserci riusciti (con l’esempio di Meyerbeer davanti agli occhi, si può solo dire «Sembrano») vi sono la Lulù di Berg, The rake’s progress (La carriera del libertino) di Stravinsky e (almeno nel mondo anglosassone, in cui vengono spesso rappresentate) diverse opere di Benjamin Britten. Strauss apparve nel 1905, Der Rosenkavalier (Il cavaliere della rosa) nel 1911 e Capriccio, l’ultima opera del compositore tedesco, nel 1942.
Se avessi descritto questa breve cronistoria 50 anni fa, sarebbe stato molto diverso. È stato nella seconda metà del nostro secolo che le cose sono veramente cambiate. Oggi viviamo in un’epoca che può esser considerata un’era gloriosa oppure un’era deprimente per l’opera, dipende dal punto di vista personale. Possiamo considerare il problema da due osservatori in drastico contrasto: da una parte, uno spettatore d’opera appassionatamente interessato all’intera arte e al colmo della gioia perché può assistere in teatro a tutte le opere di Monteverdi e a diverse di Cavalli, a tutte quelle di Bellini, di Verdi e di Wagner (non solo Rienzi ma anche Die Feen (Le fate) e Das Liebesverbot (Il divieto d’amare), a molte di Gluck e forse a tutte quelle di Mozart, circa venti trenta di Handel, Rossini e Donizetti e molto, molto di più; e dall’altra uno spettatore appassionatamente coinvolto dall’arte del suo tempo che vede l’opera contemporanea ignorata e sempre meno presente nel repertorio corrente.
I – La riscoperta di grandi opere
Prendiamo due grandi prime donne, Giuditta Pasta (in pieno rigoglio artistico negli anni 1816- 1837) e Maria Callas (negli anni 1947-1965): la prima cantava Mozart, è vero, ma in un periodo in cui Mozart rappresentava una musica più nuova di quanto non sia La rondine di Puccini oggi. Gran parte dei ruoli da lei interpretati le erano contemporanei come la Corinna di Rossini (ne Il viaggio), Norma e Beatrice di Tenda, Amina di Bellini. La Callas «Creò» solo un ruolo, e cioè Euridice nella tardiva prima mondiale dell’Orfeo di Haydn (composto nel 1791). D’altro canto, la Callas fece più di chiunque altro per riportare sulla scena mondiale e per rivelare il potere drammatico di opere di Donizetti e Bellini un tempo famose e da molto, ormai, dimenticate.
Ella ampliò il repertorio della metà del secolo e stimolò altri a farlo. In altri settori, la riscoperta era già iniziata. Il revival delle opere meno amate di Verdi iniziò in Germania alla fine degli anni Venti: nel 1931- 32 le rappresentazioni di Verdi sul suolo tedesco superarono quelle di Wagner per 1420 a 1385. Si scoprirono i meriti delle migliori opere nazionali: prima Musorgskij e Smetana, poi Rimskij-Korsakov, e in seguito Janàcek furono ascoltati in tutto il mondo. La rapidità degli spostamenti aerei ebbe un’influenza opposta. I divi invece di stabilirsi a Milano, Londra o New York per il tempo necessario alla preparazione dei nuovi allestimenti iniziarono a volare avanti e indietro, e ad offrire al pubblico le interpretazioni dei ruoli più celebri, comprendendo nel proprio circuito Vienna, Parigi, Berlino, Amburgo, Monaco e altri teatri lirici che un tempo avevano avuto compagnie stabili nazionali indipendenti.
II – Un repertorio molto esteso
Il viaggio e il commercio hanno sempre fatto parte dell’opera, ma oggi le compagnie multinazionali esercitano un ‘influenza su quest’arte che i vecchi impresari come Lanari, Barbaja e J.J. Barnum non ebbero mai. L’industria discografica (e ora video) con le sue «proiezioni di vendita» svolge un ruolo determinante nella scelta del repertorio e nell’assegnazione delle parti a direttori e cantanti. D’altra parte (c’è sempre un’«altra parte» nel quadro confuso dell’opera contemporanea), è proprio il disco che ha fatto conoscere lavori che non ci si sarebbe mai immaginati di ascoltare comodamente a casa (lasciamo che il Catone in Utica di Vivaldi, l’Enrico Leone di Steffani, l’Imelda de’ Lambertazzi di Donizetti e I lituani di Ponchielli servano da esempi).
Perciò oggi abbiamo un repertorio enormemente esteso, che abbraccia molti secoli come mai era successo prima. Abbiamo esplorazioni incessanti e fruttifere del passato (il Seicento, il Settecento, Meyerbeer, il verismo, il dimenticato Massenet, i lavori minori dei grandi maestri), aiutate dagli studiosi con le loro edizioni critiche. Al tempo stesso, vediamo il grande pubblico dedicare il proprio denaro e la propria attenzione – e la maggior parte dei grandi interpreti dedicare la propria arte – solo a quel passato. Dove un tempo una vecchia leggenda avrebbe goduto di «rilievo contemporaneo» grazie a una nuova creazione come successe, ad esempio, alla figura di Orfeo ripresa da Monteverdi, Gluck, Haydn, Mozart (con Tamino), Wagner (con Tannhäuser), Milhaus e molti altri – gli sforzi attuali convergono in gran parte nel fornire le vecchie opere di un nuovo abito. Karlheinz Stockhausen, è vero, si è impegnato nella sua Licht di sette giorni, in una nuova opera contemporanea su Orfeo, o sul divino potere della musica, con un protagonista di nome Michael. Ma alla seconda replica del suo Montag, alla Scala, gli interpreti erano più numerosi degli spettatori.
Io scrivo qui a New York, una città commercialmente corrotta, in cui il Metropolitan Opera (che sotto Gatti-Casazza era un luogo progressista) non allestisce una prima da 23 anni e dedica i suoi principali sforzi a messinscene sontuosamente spettacolari e drammaticamente poco stimolanti di opere conosciute.
Eppure non scrivo senza speranza. Le cose vanno realmente meglio altrove e so che io e molti altri impersoniamo contemporaneamente entrambi i tipi di osservatori appassionati d’opera che ho messo a confronto: dispiaciuti che l’opera come attuale forma d’arte creativa sia potuta diventare interesse di una minoranza, ma felici che il ricco e fruttifero passato operistico, con tutti i suoi rapporti col presente, si sia dischiuso a noi come mai prima d ‘ora.
Fine
Le puntate precedenti della “Breve storia dell’opera” di Andrew Porter potete leggerle a questi indirizzi:
1. Le origini
2. Il Settecento
3. L’Ottocento
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Andrew Porter
(Cape Town 26 agosto 1928 – Londra 3 aprile 2015)
Andrew Porter nasce a Città del Capo il 28 agosto 1928, Sud Africa. Diplomato in organo a Oxford, comincia a occuparsi di critica musicale alla fine degli anni ’40, collaborando ai quotidiani inglesi Times e Daily Telegraph. Dal 1953 dal 1972 è critico musicale titolare del Financial Times. Trasferitosi negli Usa, diventa critico del New Yorker, dal 1974 al 1992. Storico della musica e raffinato esperto di vocalità e melodramma, a lui si deve la scoperta alla Biblioteca dell’Opéra di Parigi di brani del Don Carlo, ritrovamento che ha portato alla ricostruzione della versione originale dell’opera verdiana. Questa Breve storia dell’opera, scritta nel 1990, è stata pubblicata nello stesso anno da Amadeus a puntate in esclusiva.
Muore a Londra il 3 aprile 2015.
UN WANDERER SUDAFRICANO A LONDRA (E N.Y.)
(articolo di Nicoletta Lucatelli pubblicato sul numero di giugno 2015 di “Amadeus” dedicato all’illustre critico)
Il più formidabile critico musicale della seconda metà del ventesimo secolo: è questa la definizione della stampa di qua e di là dell’Atlantico, all’indomani della scomparsa di Andrew Porter, dal 1972 al 1992 curatore della rubrica Musical Events sul New Yorker (raccolta nei tre volumi Musical Seasons), un ventennio al Financial Times (1953-1972), collaboratore del New York Times e del Times Literary Supplement. E che il pubblico melomane italiano ha imparato a conoscere dalle pagine di Amadeus, per cui ha scritto fin dal 1990 dietro invito del direttore, Duilio Courir, diventando nostro corrispondente privilegiato da Londra e da ogni luogo accendesse la sua curiosità – perché il solo fatto che ne scrivesse significava un allargamento dello sguardo e del pensiero musicale – autore di ispirati vagabondaggi musicologici intorno ai suoi compositori d’elezione, da Händel a Verdi a Schubert con incursioni contemporanee da Pfitzner a Birthwhistle. Alex Ross, suo grato successore al New Yorker, ne ha ricordato la scrittura sapiente e la memoria impressionante: «Anche se qualche lettore avrà trovato i suoi detour un po’ pedanti, quella dispensa di particolari acquisiva una fluidità sensuale: e ti ritrovavi a nuotare nell’onniscienza di Porter». Gordon Cramb, sul Financial Times, ne ha con ironia esemplificato le scelte anticonformiste («piuttosto che recensire Arthur Rubinstein suonare l’ennesimo Secondo concerto di Brahms, la sua preferenza l’avrebbe portato ad assistere a una esecuzione amatoriale nella sala parrocchiale di una chiesetta di periferia») e l’indipendenza di giudizio («era noto per mettere in ridicolo la produzione del momento al Covent Garden anche se nel consiglio di amministrazione della Royal Opera House sedeva Lord Drogheda, all ‘epoca presidente del nostro giornale»). Primi studi musicali di organo a Cape Town, laurea in musicologia e letteratura a Oxford, autore e traduttore di libretti, regista, docente e conferenziere, la sua impulsiva attività di esploratore musicale gli ha riservato l’emozione di scoprire, nel 1970 alla Biblioteca dell’Opéra di Parigi, oltre un’ora di musica cancellata da Verdi fra le prove in costume e la prima parigina del Don Carlos (Amadeus n. 138 e n. 144). Ho avuto il privilegio di intrattenere con lui un epistolario professionale, oltre al grandissimo piacere di tradurre quasi tutti i suoi articoli (attività per la quale mi dimostrava immeritata gratitudine nell’emozione di vedere le sue parole acquisire suono italiano), vere sor prese (non solo nel contenuto, ma anche nella tempistica di invio).
L’ho incontrato un’unica volta, a Valencia, per il toccante Parsifal polare messo in scena da Werner Herzog. Nel foyer dell’ipermoderna balena di Calatrava mi era sembrato poco a suo agio, pochi riconoscevano quell’uomo alto, dinoccolato, timido e gentile. La mostra di illustrazioni dei libretti dell’opera mi fornì l’occasione di essere cullata, live, negli intervalli, dalla sua infinita capacità di intessere trame culturali e connettere mondi.